VI

I «Sepolcri»

1. La composizione del carme

Nel 1806 (verso il 18 o 19 marzo) il Foscolo era di nuovo a Milano e nell’aprile ne partiva per riabbracciare a Venezia la «vecchierella innamorata» e la sorella Rubina che non rivedeva da quasi dieci anni. Passò due mesi a Venezia, dove riallacciò la vecchia relazione con la «saggia» Isabella, poi a metà giugno tornò a Milano, alternando missioni militari a visite, conversazioni a relazioni epistolari con letterati amici come il Pindemonte e il Monti.

Dopo il soggiorno francese ed il suo isolamento, il ritorno agli affetti della giovinezza e alla frequentazione dei letterati, con lo stimolo del loro lavoro, aiutò il Foscolo a ritrovare piú concretamente il ritmo del proprio lavoro poetico («finirei il mio povero Alceo che mi rimprovera dí e notte», scriveva all’Albrizzi nella lettera del 13 luglio; e al Pindemonte il 26 luglio: «E qui trovai la lettera vostra, di cui vi ringrazio caldamente, perché vi piace di pensare a’ miei cavalli... Tanto è la materia poetica antica e moderna di questo argomento, che e’ sarà piú difficile di spenderla che di procacciarsela. Ora io comincio a pensarci davvero, ma mi bisognerebbe quattr’anni almeno di sacro ozio; perché ci vuole molto e molto studio per la scienza fisica del cavallo, e molte osservazioni sulle loro forme; e non è cosa da pigliare a gabbo. Pure se voi promettete di non attendere che all’Odissea, io farò sacramento di non leggere libro, né scrivere verso che non sia sacro al Dio ἴππονθα λίποδα...»).

A questa ripresa poetica fu di stimolo l’esempio di altri poeti neoclassici e soprattutto del Monti, al cui Bardo in quell’anno il Foscolo dedicò un articolo ricco di spunti significativi, fra echi del Commento («il mirabile, elemento principale della poesia, ove non sia aiutato dalle idee soprannaturali e dalla religione de’ popoli, perde gran parte di effetto; e quanto piú le tenebre del tempo seppelliscono le storie dei mortali, tanto piú appare sacro e venerando quel lume che le tradizioni e le reliquie di monumenti diffondono sulla lunga notte dei secoli...», Prose, III, p. 200) ed osservazioni importanti sul verso sciolto che sarà d’ora in poi il metro unico della sua poesia.

Passò poi a Brescia nel settembre e, durante l’idillio con Marzia Martinengo, in un soggiorno di particolare agio, il componimento e la pubblicazione dei Sepolcri lo occuparono completamente.

I Sepolcri nacquero cosí al culmine di un periodo di aspirazione alla poesia, stimolata da un intenso contatto con altri poeti, nacquero su di un enorme materiale di sentimenti, di idee, di immagini (proprie e fatte proprie attraverso letture e conversazioni), che venne come improvvisamente acceso in un momento di urgenza espressiva nella direzione di una grande poesia lirica, nel senso foscoliano della parola. La grande capacità sintetica del Foscolo si esercitò in questo caso con prodigiosa energia sia di fronte alla presenza di tanti spunti letterari, sia di fronte alle proprie intuizioni ed esperienze vitali.

Circa la storia esterna della nascita dei Sepolcri la critica del periodo positivistico discusse a lungo la data, la relazione con le leggi napoleoniche sui cimiteri, l’importanza della nota conversazione con il Pindemonte, ed una esposizione abbastanza completa della questione si può trovare nel secondo volume dell’Ugo Foscolo di C. Antona-Traversi e Ottolini (Milano 1927) che riferisce le varie opinioni di Trevisan, Biadego, Martinetti, Ugoletti, Chiarini, Mestica, ecc.

Naturalmente anche le posizioni piú esterne e sfavorevoli al Foscolo riprese dal Porena nel suo studio già citato, Tra Odi, sonetti e Sepolcri, circa il «sopruso» commesso ai danni del Pindemonte «rubandogli» argomenti e motivi, non toglierebbero al Foscolo se non il dubbio merito dell’“invenzione” di alcuni motivi del Carme e al massimo indicano l’origine letteraria pindemontiana di qualche immagine e spunto di verso (e del resto nel caso del Bardo del Monti il Foscolo mentre ne citava nel suo artico alcuni versi non si faceva scrupolo di adibirli alla costruzione dell’episodio della battaglia di Maratona).

Circa l’epoca della composizione, il Foscolo poté pensare anche in precedenza ad un componimento “sepolcrale” e certo non gliene mancavano già da molti anni né gli esempi (presenti in gran parte all’Ortis e già prima all’epoca del Piano di studi) né gli attacchi con una sua personale inclinazione a quel soggetto: l’Ortis stesso è percorso da una linea di sentimentalismo sepolcrale e nell’Ortis stesso la religione delle tombe ha già caratteri storici e politici («O Italia placa le ombre dei tuoi grandi!» – «La visita alle tombe di S. Croce», ecc.). Nulla prova però che il Foscolo (la vecchia tesi del Trevisan) abbia scritto già in Francia tutti o in parte i Sepolcri, di cui non fa parola sino alla lettera del 6 settembre 1806 alla Teotochi-Albrizzi, mentre parla già prima del progettato Alceo, del poema dei cavalli, ecc.

Il Carme (che fu poi pubblicato dopo molti indugi editoriali dal Bettoni a Brescia verso i primi dell’aprile 1807, ma che era stato già inviato alla stampa alla fine del 1806) fu iniziato non prima del luglio, accanto a tentativi di ripresa poetica nell’Alceo e nel progetto del poema dei cavalli e dopo momenti di sconforto e di inattività annunciati (col tono a noi noto dalla lettera al Monti del 29 aprile 1802) al Pindemonte in data 27 giugno: «Beato voi, amico mio! E me pure gradivano le vergini Muse, e anch’io sospiro la sacra solitudine; ma l’animo va invecchiando per le sciagure; e l’ingegno irrigidito, e le Grazie mute per me...» (Epist., I, pp. 63-64). E d’altra parte le due lettere alla Albrizzi del 6 settembre e del 24 novembre precisano ancor meglio periodo di composizione e spunto occasionale. Nella lettera del 6 settembre il Foscolo parla di «una Epistola sui Sepolcri da stamparsi lindamente, non bella forse, non elegante, ma ch’io vi avrei certamente recitata con tutto l’ardore dell’anima mia, e che voi, donna gentile, avreste ascoltata forse lagrimando. Io la intitolo al cavaliere [I. Pindemonte] ricordandomi dei suoi lamenti e de’ vostri; e per fare ammenda del mio sdegno un po’ troppo politico» (Lettere ad I.T. Albrizzi, a cura del Chiarini, Roma 1902, p. 19). E il 24 novembre ancora alla stessa: «Ricordate voi piú la questione nostra su’ sepolcri domestici? Io ho fatto in quel giorno il filosofo indifferente; e ne sono pentito: ho diretto una epistola al Cavaliere – un po’ triste forse come il soggetto, ma parmi di avere osservato che i muscoli del mio volto si muovono difficilmente al riso; pure il riso e il sorriso aggiungono qualche cosa alla brevità di questa mia vita mortale – ma s’io non rido è piú colpa della natura che mia; onde ho cantato i sepolcri, e ho tentato di fare la corte all’opinioni, al cuore, ed allo stile d’Ippolito. Ve li manderò fra non molto stampati con tutte le lascivie bodoniane» (Chiarini, Lettere a I.T. Albrizzi, citato, p. 22).

Dunque i Sepolcri furono iniziati prima del settembre e rivisti ed elaborati sin quasi alla fine del 1806, quando il carme passava in tipografia insieme a quell’Esperimento di traduzione dell’Iliade, che fu all’inizio del lungo lavoro delle traduzioni omeriche e che restò piú tardi contrariamente al primitivo progetto di farli pubblicare in un unico volume insieme alle poesie già edite del Foscolo. E d’altra parte, in queste lettere si pone in termini abbastanza chiari il problema del cosiddetto «sopruso» (cosí fu presentato da un letterato greco-italiano, Mario Pieri[1], che dette l’avvio ad una interminabile e sterile polemica): il Foscolo ebbe una conversazione con l’Albrizzi e il Pindemonte ed in questa si parlò di un argomento piú volte discusso nella pubblicistica di quegli anni: il valore dei sepolcri.

Argomento la cui attualità era rinnovata non solo già dall’editto di Saint-Cloud del 12 giugno 1804, ma: piú nel caso del Pindemonte, dall’effettiva apertura di un cimitero pubblico – detto il «Campone» – a Verona nel novembre 1804 e ancora dalle notizie (quando mai certi provvedimenti giungono del tutto inaspettati?) circa l’estensione per legge (di fatto era già applicata) all’Italia dell’editto napoleonico che rimetteva in questione la sepoltura dei veronesi, dopo che si era in parte ripresa la tumulazione nel Chiostro del Convento dei Minori. Evidentemente il Pindemonte aveva scritto il I canto dei Cimiteri prima delle nuove notizie e queste, o quelle circa la ripresa della vecchia pratica di sepoltura, avevano tanto piú giustificato la conversazione in cui il Foscolo aveva fatto il «filosofo indifferente», aveva cioè sostenuto proprio quella posizione che anima l’inizio del Carme.

L’applicazione all’Italia dell’editto di Saint-Cloud (5 settembre 1806) venne poi durante l’elaborazione del Carme a rinforzare il legame con gli avvenimenti contemporanei e la natura polemica («Pur nuova legge...», vv. 51-52), dato che è ben pensabile come l’Epistola, divenuta poi Carme, fosse al 6 settembre non proprio cosí pronta e definita come il Foscolo dice, se poi ne riparlava il 24 novembre come di opera appena composta.

L’occasione resta la conversazione che precisava un argomento chissà quante volte discusso anche fuori del salotto dell’Albrizzi e che aveva lo spunto nel Poema a cui attendeva il Pindemonte e nei provvedimenti che, già in vigore sotto l’Austria, venivano ribaditi con nuova autorità e con nuovo valore (il motivo egualitario) di fronte ad una nuova sensibilità sentimentale e politica che poteva reagire nella direzione “devota” e nobiliare del Pindemonte o in quella tanto piú complessa del Foscolo.

E quanto al «sopruso» del Foscolo par chiaro che, se la testimonianza del Pindemonte (e del suo biografo Benassú Montanari) può lasciare il dubbio di un esagerato scrupolo signorile (ma sarebbe tuttavia strano che nessun accenno fosse mai trapelato nelle relazioni letterarie del tempo, specialmente con tante inimicizie avute dal Foscolo), la condizione dei rifacimenti parziali delle ottave dei Cimiteri in sciolti non è tale da far ritenere possibile una derivazione dei Sepolcri da quelli.

La stessa vicinanza di alcuni punti precisata dal Pindemonte nell’Epistola con cui rispose al Foscolo è tale da far pensare che, mentre il Foscolo può aver risentito lo spunto generale da una possibile lettura dei primi versi pindemontiani, fu proprio il Pindemonte che in un secondo momento, riprendendo i Cimiteri e riducendoli attraverso due primi tentativi alla nota Epistola, precisò le coincidenze con motivi foscoliani e addirittura introdusse movenze e versi dei Sepolcri nel tipico procedimento di poesia epistolare a cui egli si attenne nella sua risposta[2].

Dalla lunga discussione sul «sopruso» ampliata dai termini generici del Pieri a quelli del Biadego (per il quale i due rifacimenti in versi sciolti erano la base di un vero plagio foscoliano di motivi e di movimenti poetici) si può ricavare solo questa conclusione: il Foscolo ebbe nella conversazione e nella probabile lettura del I canto dei Cimiteri uno stimolo al suo carme e il Pindemonte, letti i Sepolcri foscoliani, riprese il suo lavoro interrotto quando ebbe notizia della nuova opera dell’amico, e dopo aver tentato di dare ugualmente vita al suo progetto, modificato quanto al metro, nei due rifacimenti in sciolti, si limitò a cavarne un’epistola di risposta secondo quanto egli stesso ci dice. Fra l’altro appare strano che egli potesse passare dal I canto dei Cimiteri cosí veramente brutto ai rifacimenti cosí vicini all’Epistola di risposta e cosí decisamente migliori, senza avere avuto la sollecitazione della grande poesia foscoliana di cui utilizzò in quell’Epistola versi e movimenti.

Cosicché la relazione Pindemonte-Foscolo viene quasi a capovolgersi: il Foscolo ebbe dalla conversazione e dalla lettura del I canto dei Cimiteri un generico stimolo al suo carme, il Pindemonte nella ripresa modificata del suo primitivo progetto risentí – pur usufruendo di materiale suo preparato per canti non scritti dei Cimiteri e svolgendo rifacimenti ed Epistola nella sua originale cadenza poetica – la suggestione del potente testo foscoliano.

Dalla discussione con il «cavaliere» e la saggia Isabella venne, ripeto, uno stimolo a considerare il problema dei sepolcri, a investirlo di immagini e di sentimenti a cui inizialmente il conversatore aveva contrapposto una semplice negazione da «filosofo indifferente» che poi si trasformò nella bellissima domanda di apertura del Carme.

E la lettura del I canto dei Cimiteri poté suggerire solo qualche movimento e qualche immagine[3], ma certo la genericità e la querimoniosa mediocrità di quei versi non potevano accendere l’animo del poeta se non come generale pretesto di meditazione.

Ed effettivamente la conversazione con il Pindemonte serve soprattutto a legare il carme ad una occasione concreta, a filtrarvi una cadenza affettuosa che arricchisce di una confidenza e di un calore la meditazione e l’inno delle tombe, come il richiamo al verso e alla «mesta armonia che lo governa» delle poesie campestri e delle Epistole serviva ad utilizzare la eco di quella blanda sentimentalità del «grave nuovo stil», quella poesia in cui un tenue e raffinato edonismo si mescola con un’attenzione continua alla fugacità della vita e della bellezza.

2. I «Sepolcri» e la letteratura sepolcrale

Dietro quella prima suggestione tutta una lunga serie di meditazioni sulla vita e sulla morte, sulla realtà e sulle illusioni che salvano l’uomo dalla sua condizione infelice e necessaria proprio interpretando questa e superandola senza eluderla, venne ad organizzarsi intorno allo spunto sepolcrale che incideva sul suo appassionato meditare sulla vita e sulla morte e che gli permetteva di trovarsi al centro di una tematica affermata e vivissima nella letteratura italiana ed europea.

I Sepolcri nascono dal pieno di una discussione lunghissima, fondamentale e vivissima al tempo del poeta; e tale da permettere a lui l’accordo di diversi temi intorno ad un punto centrale nel gusto e nella sensibilità contemporanea, fra illuminismo e romanticismo, fra la sensibilità preromantica e il grandioso sviluppo di motivi che urgevano in quell’epoca attiva e rivoluzionaria (rivoluzionaria anche quando appariva come reazione alla rivoluzione illuministica e mediava motivi filosoficamente diversi in una ricca, potente vitalità).

Sul grandioso scenario di quegli anni (rivoluzione, guerra distruttrice dei vecchi ordini feudali, delle vecchie relazioni fra stato e individuo, nuovo bisogno di indipendenza e di concordia tradizionale delle “nazioni”, affermazione di principi illuministici e nascita di potenti motivi romantici) il tema sepolcrale[4] era ben piú che un tema di moda («quella moda tiranna che ne vuole sospirosi», come dice il Giovio nel trattatello La tristezza a proposito della letteratura cimiteriale[5]) e, se tale era divenuto (ma non privo mai di capacità emotiva nel complesso dell’anima romantica in formazione) in applicazioni secondarie (le Notti clementine del Bertola o le piú importanti Notti romane di Alessandro Verri o le esercitazioni innumerevoli dell’ultimo Settecento e del primo Ottocento), non mancava mai di un riferimento vivissimo e alle sue origini non puramente letterarie e al suo valore costante di leva romantica di fronte al provvisorio equilibrio illuministico.

La poesia sepolcrale (e della notte come tempo propizio alle meditazioni sulla morte) si presentava al Foscolo su due direzioni fondamentali di suggestioni: quella religiosa di origine protestante inglese fortemente legata ad un risorgere di sentimenti religiosi fra sensismo e preromanticismo (Young, Parnell, Blair, Hervey e propaggini tedesche in Creuz e in Zachariae) e quella francese, inizialmente sollecitata dalla prima, attraverso le traduzioni, specie di Le Tourneur, legata allo sviluppo del pensiero materialistico e atteggiata in forme classicheggianti repubblicane e laiche (Saint-Pierre, Chénier, Volney, Legouvé, Delille). E queste due correnti erano state già presenti, in diversa misura e in momenti cronologicamente successivi, all’attenzione dei preromantici italiani fino al Pindemonte che, nel suo personale compromesso di gusto e nelle sue sintesi del «grave nuovo stil», veniva sviluppando misuratamente le esigenze civili della seconda e piú decisamente quelle pie della prima verso una soluzione cattolica, spiritualistica, che ebbe il massimo impulso ad una precisazione in termini di fede proprio dalla negazione foscoliana, dalla sua posizione non cristiana a cui il mite poeta veronese contrapponeva, al di là di una religione della grandezza eroica della storia e della poesia, il legame fra un culto affettuoso e sentimentale, signorile e sottilmente edonistico e una precisa visione di resurrezione in cui la parte immortale della donna amata tornerà a rivestirsi, raccoglierà intorno a sé i vari elementi corporei passati provvisoriamente «in un’erba», «in un fiore».

Chi seppe tesser pria dell’uom la tela,

ritesserla saprà, l’eterno Mastro,

fece assai piú, quando le rozze fila

del suo nobil lavor dal nulla trasse;

e allor non fia per circolar di tanti

secoli e tanti indebolita punto,

né invecchiata la man del Mastro eterno.

Lode a lui, lode a lui sino a quel giorno.

Il Foscolo a sua volta risentí le suggestioni della poesia cimiteriale e delle discussioni di quel tempo sulla linea piú omogenea al suo gusto letterario ed alle sue esigenze di lirica alta e civile e le fecondò con una personale e limitata ripresa del grandioso storicismo vichiano per il quale la cerimonia della sepoltura insieme a quella del matrimonio e del culto religioso è fondamentale prova del passaggio dallo stato ferino a quello umano (v. Scienza Nuova, Bari 1928, I, p. 118 e pp. 120-121).

E naturalmente tutte quelle suggestioni (alcune provabili come lettura precisa, altre come atmosfera largamente e indirettamente operante) erano già passate dalle letture giovanili (nel Piano di studi abbiamo visto la citazione di Gray, Young, Arnaud) attraverso le imitazioni younghiane dei Sonetti per la morte del padre e dell’elegia In morte di Amaritte, nelle «Quarantacinque lettere» e nell’Ortis, dove la traduzione latina dei versi del Gray aveva funzionato da contrappeso solenne ed omogeneo alla desolata ed austera concezione materialistica della morte (nulla eterno e ritorno di materia alla materia):

Naturae clamat ab ipso vox tumulo.

E la tomba (passata dalla «fossa» younghiana macabra e ossessiva alla tomba senza nome dell’Ossian) era divenuta dopo Ortis, nei grandi sonetti, il mito altissimo di una tensione romantica alla vita attraverso la morte nella limpida perfezione di una definizione classica (la «tomba illacrimata»), il punto di arrivo di una «esistenza breve, dubbia, infelice», il porto bramato dallo spirito inquieto romantico, ma anche un termine di colloquio, la base essenziale di una meditazione sulla vita e sulla morte che aveva perso ogni carattere macabro, e che implicava una risposta non solo personale, ma generale al problema della vita dentro la concezione materialistica, accettata nei suoi termini fondamentali, ma con l’aspirazione ad un cielo di illusioni consolatrici, capaci di far vivere gli uomini senza rinnegare la realistica visione della loro sostanziale infelicità, senza perdere in un canto inebriante ed ottimistico il senso alto e poetico del loro dramma di creature «dopo brevi dí sacre alla morte», e affermanti faticosamente le loro aspirazioni piú nobili dentro una realtà dura e limitatrice.

Nell’ode milanese l’illusione della «aurea beltate» e la poesia eternatrice di quella illusione consolatrice avevano aperto un problema che richiedeva ben altro approfondimento di fronte «al giorno dell’eterna pace» e alla «illacrimata sepoltura». Quella illusione era parziale ed altre illusioni-valori dovevano venir precisate piú in contatto con il momento tragico della morte; e proprio in quel limite affascinante e doloroso fra vita e morte, rifiutando d’altra parte la piú facile via d’uscita tradizionale, di carattere trascendente, bisognava trovare una piú profonda affermazione della vita, un passaggio e una continuazione della vita attraverso la morte. Ed è proprio nella letteratura sepolcrale, nelle sue voci piú genuine e valide, che questa esigenza dello spirito foscoliano trovava stimoli e suggestioni congeniali, dato che quella letteratura era stata soprattutto l’espressione di una inquietudine, di una rivolta della sensibilità e di un problema spirituale profondo di fronte all’accettazione ottimistica della vita e alla scarsa considerazione della morte nella civiltà illuministica o almeno nel suo aspetto piú superficiale e dominante.

Cosí la poesia di Parnell, di Hervey, di Gray (piú di quella di Young, cupa ardente predica di un sensato protestante che aveva fruttato nell’Ortis e ancora frutterà nel Leopardi delle meditazioni sulla nullità umana), offriva (specie per la prima parte elegiaca dei Sepolcri) nella sua Stimmung melanconica (a cui la fede non toglieva l’acuto compianto della vita fuggente e il senso vivo dell’irreparabile fatto tragico della morte in una tradizione di forti affetti familiari, di intenso bisogno di un colloquio, di un’abitudine cara) il punto di partenza della domanda sul valore del sepolcro, di questo simbolo della frattura e della continuazione.

Non tanto la domanda celebre di Parnell nel suo Night-piece on Death:

Why then thy flowing sable stoles,

deep pendant cypress?,

che ha una troppo pronta risposta fiduciosa di credente, non tanto le meditazioni devote delle Tombe di Hervey[6] pure mosse da una trepida attenzione al sepolcro «il piú grande dei maestri», «con la sua scuola di verità», con la sua «voce che si eleva dal fondo delle urne...», quanto nella bellissima Elegy written in a country church-yard del Gray le profonde domande sul valore del sepolcro nell’accordo affascinante di un’elegia assorta e solenne e di un senso alto della vita anche di fronte agli umili eroi di una storia campagnola

(Can storied urn, or animated bust,

back to its mansion call the fleeting breath?

Can honour’s voice provoke the silent dust,

or flattery soothe the dull cold ear of death?)

o l’espressione del naturale amore del morente per la vita e la prosecuzione della sua vita nell’affetto dei viventi, nella loro sensibilità a cui parlano la tomba e le ceneri:

For who, to dumb forgetfulness a prey,

this pleasing, anxious being e’er resign’d,

left the warm precints of the cheerful day,

nor cast one longing, ling’ring look behind?

On some fond breast the parting soul relies;

some pious drops the closing eye requires,

even from the tomb the voice of nature cries,

ev’n in our ashes live their wonted fires.

E d’altra parte la meditazione sulla morte dei poeti inglesi, addolcita in Gray dalla patetica collaborazione della campagna melanconica, poteva tornare nella memoria operosa del Foscolo anche attraverso quella religione della tomba senza nome, densa di sospirosi compianti, nella decisiva parola dell’Ossian cesarottiano, in cui insieme si presentavano il motivo della memoria dolente e il senso del tempo che cancella i segni di ogni splendore passato:

(in mezzo al Selma

crescerà l’erba e il musco alto degli anni).

Ma se quel verso mesto e sicuro portava con sé una lezione essenziale di malinconia e di solennità, in una religione della morte e del passato eroico e virile e senza nessun riferimento ad una religione tradizionale, altri poeti e letterati francesi, cronologicamente piú vicini al Foscolo, riprendendo le suggestioni inglesi e rinforzando con ricordi classici fra grandiosi, monumentali (Piranesi) e splendenti, aurei (le immagini omeriche e virgiliane dei riti funebri) la visione malinconica e serena dei cimiteri-giardino inglesi, offrivano una piú precisa tematica in un omogeneo gusto neoclassico.

È in Francia che si era precisato quello che il Michéa chiama «le plaisir des tombeaux», l’amore per le tombe senza orrore, legato a un classicismo tradizionale, facile e decorativo come quello dei Bergers d’Arcadie di Poussin, e insieme ad un nuovo classicismo amante delle rovine grandiose (Volney) e del sereno mondo dei classici visto nell’essenziale momento funebre dove si poteva sentirlo piú lontano e polemico rispetto al macabro medievale e barocco.

Qui si incontravano il gusto neoclassico e l’aspirazione laica e rivoluzionaria ad una religiosità senza «terrori superstiziosi», civile e naturale, vagamente panteistica[7].

La moda delle tombe nei giardini (e magari tombe finte[8]) si incontra con profondi motivi di civiltà in un momento importante dello sviluppo rivoluzionario fra il bisogno di uguaglianza, di igiene, e il bisogno di trionfo degli eroi, di nuova tradizione eroica e di religione della patria, come si avvertono nella celebre poesia del Legouvé La sépulture che si ricollega ad una perorazione del Pastoret all’Assemblea dei 500:

On se sent agrandir au tombeau d’un grand homme.

Dal seno dell’illuminismo trionfante in regime sorge il bisogno di illusioni vitali di nuove tradizioni a loro modo religiose e nella polemica anticattolica del neoclassicismo repubblicano (strappare anche la morte al cattolicesimo ed ai suoi riti!) una specie di religiosità naturale, laica, eroica e patriottica, in cui fremono essenziali motivi romantici mediati dal primo slancio della poesia inglese, si libera e si esprime poeticamente in Delille (Les Jardins, L’imagination) come già in Chénier.

Nella poesia di André Chénier il motivo del contatto fra vivi e morti, del «commerce d’amour», si svolge dentro l’omogeneo motivo di paesaggio naturale e greco che toglie al nuovo simbolo della morte ogni carattere di orrore preromantico come di ogni macabro decoro barocco controriformistico (anche la morte strappata al dominio confessionale). Tombe fra le piante, disposte alla consolazione della pietosa natura e degli amici affettuosi[9], tombe che con il loro stimolo di rimembranza permettono una continuazione di vita e canto poetico che immortala

(«Votre nom plus heureux, grâce aux chantres célèbres,

de la nuit envieuse a percé les ténèbres...»

Elegia XCVI, Œuvres, Paris, s.d., III, p. 179),

sono spunti che il Foscolo poté sentire ed indici di una diffusione e precisazione di temi coerenti ad una linea ideologica e letteraria vicina alle posizioni generali foscoliane che non perdono perciò di originalità (originalità che va cercata piú in profondo e nell’originale ripresa e trasformazione della tematica scelta e riordinata in un nesso nuovo e personale), e mostrano la loro sicura storicità, la loro vita non in una assurda solitudine, ma al culmine di una discussione essenziale e complessa di idee, di sentimenti, di aspirazioni poetiche, di cui i Sepolcri furono la massima espressione poetica.

E in questa indicazione di una tematica sepolcrale accanto a Chénier va naturalmente ricordato un altro testo fondamentale e ricco di motivi ormai affermatisi nella linea neoclassica-laica dominante nella poesia francese del periodo rivoluzionario e napoleonico (prima della decisiva svolta romantica di Chateaubriand): il canto VII della Imagination di Jacques Delille. Il poema fu pubblicato all’inizio del 1806 (ma composto fra il 1785 e il 1794) dopo che motivi sepolcrali erano apparsi nel poemetto Les jardins del 1782 e il Foscolo dové ben conoscerlo alla pari del Pindemonte che se ne serví nella Epistola di risposta.

Nel canto VII (La Politique) il «verseggiatore» neoclassico (come lo aveva chiamato giustamente il Foscolo nel Commento alla Chioma di Berenice) nel suo tono slavato e discorsivo svolge una serie di temi sepolcrali che partendo dal motivo grayano della voce della natura che parla dal tumulo sale a costituire un culto privato delle tombe[10] come fonte di illusioni offerte dall’immaginazione agli uomini privi di piaceri reali (nel II canto si presentano «les plaisirs de l’illusion suppléant aux plaisirs réels») e che inutilmente la «raison dédaigneuse» disapprova condannando empiamente il culto dei morti e non distinguendolo dalle follie superstiziose di popoli selvaggi o da usi macabri ed antigienici giustamente riprovati. Inutilmente e dannosamente (e si noti che il Delille su questa linea laica introduceva vaghi accenni tradizionali, spunti piú chiaramente spiritualistici non stonati nell’atmosfera “imperiale” in cui il poema veniva a presentarsi al pubblico) perché il culto delle tombe ha una piú alta ragione civile:

Ces devòirs, ces cultes domestiques

sont-ils donc étrangers aux fortunes publiques?

L’État n’est-il pour rien dans ces touchants regrets?

ce morts...

... du bords de leurs tombeaux vous ont dicté ces lois

qui disposent encore de vos fils, de vos filles,

sont l’âme de l’État, le code des familles...

Le tombe dei grandi devono perciò essere magnifiche e visibili sí che possano servire d’esempio e di esortazione perché

du sein de leur tombeaux, comme au fond d’un temple,

sort l’oracle du dieu dont il est habité.

Cosí Delille inveendo contro un dannoso egualitarismo e un empio disprezzo per i sepolcri, e insieme contro ogni culto macabro della morte, vagheggia le sepolture dei popoli antichi:

Oh que tels n’étaient point ces peuples autrefois,

si riants dans leurs mœurs, si sages dans leurs lois.

En foule dispersés dans un beau paysage,

les tombeaux d’un héros, d’un poëte, d’un sage,

à l’œil reIigieux s’offraient à chaque pas:

le grand jour en chassait les ombres du trépas.

Mollement inclinés sur ces mânes célèbres,

des arbres leur prêtaient de plus douces ténèbres;

l’olivier cher aux morts, symbole de la paix,

les lauriers triomphant, mariés aux cyprès,

ombrageaient les vertus, les arts ou la victoire.

On croyait parcourir les jardins de la gloire;

le deuil s’y dérobait sous l’éclat des honneurs,

et leur noble aiguillon pénétreait dans les cœurs.

Loin donc ces noirs réduits, loin ces dômes funèbres...

Esaltando l’onore reso ai grandi morti in un solenne Pantheon (e si ricordi che le onoranze alle ceneri di Voltaire e Rousseau decretate dall’Assemblea rivoluzionaria furono uno dei molteplici stimoli del tempo alla glorificazione foscoliana di S. Croce), Delille accenna nella sua piatta eloquenza ad un ultimo tema che avrà ben altro sviluppo nei Sepolcri: quello del tempo che spazza anche le rovine dei sepolcri:

Mais ces marques d’honneur et ces grandes monuments

prèsentent trop de prise aux outrages du temps...

Les hommes, leurs tombeaux; les temples et leurs dieux,

tout meurt...

L’arte sola eternando nel bronzo dei grandi artisti il ricordo dei grandi viene a supplire all’opera dei sepolcri.

Del resto il Foscolo poteva avere – su questa linea di religione laica dei sepolcri – anche stimoli nella stessa letteratura e nella pubblicistica italiana e specialmente milanese.

Preoccupazioni di “igiene”, di civiltà legate anche all’antipatia per i riti cattolici, per il senso macabro della morte, si erano precisate nella discussione sulle tombe che si era protratta per decenni intorno alle leggi austriache (1785) e poi a quelle napoleoniche e di cui ci sembra documento davvero interessante e poco calcolato nella vecchia ricerca delle “fonti” l’articolo del Lambertenghi Sull’origine e sul luogo delle sepolture («Caffè», III semestre, 1765) che certamente fu noto e presente al Foscolo.

Interessante sia per i punti che possono aver stimolato il Foscolo a precisi argomenti, sia per l’accordo che già in zona illuministica si ammetteva fra tombe, civiltà e vita, in una premessa materialistica (le proteste religiose del Lambertenghi non hanno qui gran valore di fronte alle sue tesi fondamentali) simile a quella foscoliana, quale poté essere avanzata nella conversazione con il Pindemonte da parte del «filosofo indifferente».

La morte, fenomeno che pochi guardano con tranquilla filosofia, come una necessaria conseguenza delle infallibili leggi dell’universale meccanismo stabilito dall’Eterno Autore della natura, si è quel punto che fa rientrare nella folla de’ corpi non organizzati la spoglia nostra, e la confonde col resto della materia. Incapace di azione, di sentimento, di piacere e di dolore, pare che non dovrebbe dagli altri uomini meritare cura alcuna. Ciononostante quello è il tempo in cui maggiori tributi riceviamo dall’altrui umanità... («Il Caffè», edizione di Milano, 1804, II vol., p. 54).

Naturalmente il Lambertenghi spiega il «ciononostante» sensisticamente (compassione per il pensiero della nostra sorte e della sensibilità attribuita illusoriamente al caro morto). «In fatti il vivo dolore per la morte di un uomo che ci appartiene, il desiderio di sollevarlo, che non possano mai negli accessi di una passione violenta e forte? Si crede capace di sentimenti un freddo cadavere, e dopo pianti lunghi e sospiri inutili, tutto si rivolge lo studio ad onorarne la memoria, ed a procurargli quel piacere, a cui lo crediamo sensibile» (p. 55). Illusione in base alla quale sorgono i riti (e le credenze) dei vari popoli, condannati negli eccessi superstiziosi degli egiziani, ma non nei riti classici degli ateniesi («Solone stabilí nissun cittadino ateniese potersi dentro la città seppellire, fuori da que’ soli, la virtú de’ quali fosse stata alla Città utile. Cosí un piccolissimo e raro male serviva di stimolo a formare dei grandi cittadini, ed a rendere illustre la Patria»; p. 571) o dei romani che collocavano «le ceneri in urne deposte», «lungo le strade consolari e principalmente lungo la via Flaminia, Appia, Aurelia ed Ostiense, oggetto di meditazione, e spinta alla gloria».

Ecco l’ideale discreto e saggio dell’illuminista sensibile al valore delle tombe ed ecco la condanna della sepoltura nelle chiese: «Il contaminare con esalazioni pestilenziali que’ luoghi, dove l’aria dovrebbe essere grave d’incenso e di fiori; il mantenere l’odierno costume che nelle Città e ne’ piú rispettati frequenti luoghi di esse i cadaveri corrompendosi cagionino delle malattie e ne diffondano i mortali semi, e cosí ancora estinti siano di danno, non è certamente conforme alla ragione, né è degno di un secolo tanto colto e tanto illuminato».

Non sempre i sassi sepolcrali a’ templi

fean pavimento; né agli incensi avvolto

de’ cadaveri il lezzo i supplicanti

contaminò, né le città fur meste

d’effigiati scheletri...

E l’articolo si conclude con una contrapposizione pariniana fra la campagna e la città che ben chiarisce la preoccupazione essenziale del «buon cittadino»: «Quale differenza tra l’aria della campagna imbalsamata di mille grati odori e continuamente dai freschi zefiri agitata, e tra la malsana e stagnante atmosfera della città, prodotta dalla traspirazione dei cadaveri degli uomini e degli animali...» (p. 59) di cui un’eco si può risentire nell’alta ispirazione foscoliana:

ma cipressi e cedri

di puri effluvj i zefiri impregnando...

Piú vicino al Foscolo poté essere il libro di Ercole Silva Dell’arte dei giardini inglesi (Milano 1801, e nuova edizione, Milano 1813), la cui efficacia fu notata dal Cian (Per la storia del sentimento e della poesia sepolcrale in Italia e in Francia, «Giornale storico», XX, 1892) e dal Ferrari (Liriche scelte di Ugo Foscolo, Firenze 1891), e piú recentemente giustamente precisata dal Vincent (The commemoration of the dead, Cambridge 1936) che poté metterla in relazione con il gusto dei giardini e dei cimiteri-giardini cosí diffuso in Europa dall’Inghilterra (con dietro i trattati sempre molto letterari di C.C.L. Hirschfeld, La thèorie de l’art des jardins, Amsterdam 1779-1785, e di altri scritti citati dal Silva stesso) e rilevare nelle stesse illustrazioni del Silva e dello Hirschfeld l’accordo di urne neoclassiche e alberi melanconici in scene patetiche in cui «the dead and the living are in constant communion while nature spreads a kindly veil about them» (op. cit., p. 40).

Già il Pindemonte nel 1797 aveva letto all’Accadamia di Padova il suo discorso sui Giardini inglesi, ma il Silva, in un’opera davvero interessante per la storia del costume del primo Ottocento, offriva nelle illustrazioni e nelle pagine descrittive una somma di suggestioni culminanti nel capitolo «sui giardini annessi ai cimiterj» che il Foscolo aveva letto già prima ma quasi certamente ripreso nel 1806 durante l’elaborazione del Carme quando se ne serví direttamente (e lo confermò nella nota ai versi sui «suburbani avelli») appoggiando il suo paesaggio di giardino a quel testo tecnico e letterario, che offriva un senso generale dell’accordo fra natura e presenza dei sentimenti umani e in particolare proposte ben figurabili (con appoggio di illustrazioni) del cimitero giardino e osservazioni che ben aiutavano la precisazione della tematica a cui il Foscolo si era avvicinato nella costruzione del Carme.

Dei monumenti per onorare i grandi dice il Silva: «Tale tributo reso al vero merito, onora quello, cui è dato, e che il discerna: ritiene viva nei petti cittadini la memoria dei fasti e dei progressi nazionali» (II, p. 260), e parlando direttamente dei cimiteri-giardini (pp. 153-166) ecco la fondamentale giustificazione dei cimiteri-giardini classici e inglesi proposti contro i campisanti-fosse comuni e la sepoltura nelle chiese: «I cimiterj sono que’ luoghi che per loro stessi, ricordando all’uomo la piú luttuosa sua catastrofe, conviene che nel loro aspetto diminuiscano il ribrezzo che viene causato dalla idea della dissoluzione, ornandoli con maestosa semplicità di tutti quegli oggetti, che possono sussidiare l’immaginazione colle idee del riposo e della riproduzione. Le piante, che hanno il verde perenne, come i pini, i cipressi, i tassi ed i lauri, sembrano essere esclusivamente volute per ornare questi recinti, sia per l’idea funerea, che la consuetudine ci ha applicata, sia perché mostrando queste piante avere una vitalità permanente, che non riceve insulto dal verno, consolano l’umana ambizione, che tanto spesso ama di pascersi di felici allusioni» (III, p. 153).

Non solo la descrizione dell’ideale camposanto[11] suggerí al Foscolo immagini e parole e l’idea del cimitero inglese e quello degli antichi, ma non mancano accenni alla legislazione lodata qui (e nel Foscolo accusata, ma accettata nei confronti dell’uso cattolico) per aver allontanato «questi luoghi dall’abitato per procurare la maggiore salubrità dell’aria, e non serbare sott’occhio con troppa frequenza gli oggetti di commiserazione e di dolore agli abitanti» (pp. 154-155), e al colloquio affettuoso dei vivi (la vedova romana, la patetica figura femminile classicamente orante), «all’intimo commercio de’ viventi co’ trapassati» (p. 157) che fra gli antichi comportava ai morti una «perenne esistenza sulla terra, li rendeva ovunque presenti, e li facea partecipi ai pubblici e famigliari avvenimenti, e veglianti alla condotta de’ privati e del governo» (p. 158), alla comune attenzione dei popoli al culto dei morti («Tutte le popolazioni hanno molto contribuito alla memoria dei loro. I monumenti, che ci rimangono, ne fanno fede; e le memorie, che ci sono state tramandate dei riti sacri dell’antichità, ci attestano quanto rispetto s’avesse pei funerali e per sepolcri», p. 160).

E se il Foscolo trascurò naturalmente l’accenno ai sepolcri dei principi, poté ben sentire come appoggio alla propria costruzione la posizione civile del Silva («possa risolvere colla decorosa semplicità dei monumenti a conservarci le illustri memorie dei cospicui soggetti arricchiti delle virtú piú eminenti, e nello stesso tempo non si vegga piú profanato il municipio dei tristi oggetti di lutto»; p. 161), la protesta contro la sepoltura comune e la mancanza di distinzione:

Tutto tende tra noi a renderci ingrati, ed a seppellir la memoria di chi piú non esiste. Pare che non ci siamo proposti d’ottenere dalla morte, che un dannoso terrore, atto ad assoggettare ed opprimere la generazione in vita. L’istituzione de’ campi santi per generale sepoltura comune rifugge le liberali idee, e non si fa riguardare che per un famelico delirio d’insane innovazioni. La distinzione delle sepolture fu sempre in vigore presso tutti i popoli antichi e moderni, ed ha grandemente contribuito alla loro civilizzazione... La piú esatta eguaglianza morale e civile diviene ineguaglianza di fatti; e per conseguenza il sarcofago che eterna la memoria del padre della patria e del sommo legislatore, sarà piú eminente, e piú ornato dell’urna di un semplice privato... (II, p. 159).

Le indicazioni di testi cosí vicini al suo interesse si mescolavano con indicazioni figurative tutt’altro che trascurabili nella direzione di paesaggio cimiteriale in cui il Foscolo vide (e l’elemento visivo è essenziale in una poesia tutta immagini, tutta vista in scene, in paesaggi, in toni di luce) svolgersi la visione mobile dei suoi temi melanconici ed eroici e altamente consolatori e sacri.

Siamo nell’epoca del cimitero degli inglesi a Roma, dei falsi cimiteri ornamentali nelle ville Belgioioso, Silva, Cusani a Milano, e già a Selvaggiano il buon Cesarotti aveva eretto tumuli e boschetti funerari la cui stessa descrizione aveva potuto sollecitare il Foscolo verso una immagine figurativa dalla tomba a cui erano di sostegno le esaltate e grandiose incisioni della via Appia piranesiana, le tavole di antichità ercolanensi, i bassorilievi simbolici riportati dal Bianchini nella sua Istoria universale (e le tavole delle iscrizioni del Marini) come nel Silva il colombario degli Acii nella villa Belgioioso del Pollak (II, 68, seconda ediz.) o il prospetto di campo santo del La Gardette (II, 63) o gli stessi monumenti canoviani precedenti al 1806: il monumento del cavalier Emo, le figure mitiche nei sepolcri Ganganelli e Rezzonico, il vaso cinerario per la contessa Furstenstein, i modelli per il monumento a F. Pesaro e all’Alfieri. E in tal senso si può ben dire che il simbolo preromantico della morte (la fossa delle Notti di Young, il «basso letto», «l’angusta magione» ossianesca) viene riscattato dal suo peso di orrore non solo dal nuovo sentimento religioso della tomba come documento di civiltà e di storia, ma anche dalla eleganza perfetta, immortalatrice dell’urna greca, dalla presenza sollecitante di statue ellenistiche e canoviane a cui potrebbero far da commento (e lo fecero nella descrizione di statue canoviane dell’Albrizzi, Pisa 1821-1824) i versi dei Sepolcri in cui vivono le Muse sedute presso i sepolcri, la donna che innamorata prega, il tempo con sue fredde ale, sulla via di quella altissima purificazione della morte che nel Leopardi diverrà alata «bellissima fanciulla / dolce a veder, non quale / la si dipinge la codarda gente».

In quei mesi che dobbiamo immaginarci di lavoro fervido e strenuo, insieme culturale e poetico, quanti ricordi da organizzare e trasformare (rilevati spesso dalle note), quanti temi di pensiero, quante suggestioni poetiche da richiamare in questa altissima “summa” poetica (summa per sintesi, in sintesi quasi “divina commedia” del romanticismo neoclassico)! E gli stessi elementi di poesia classica, che il Manacorda e il Rizzo (T.L. Rizzo, La poesia sepolcrale in Italia, Napoli 1927) credettero di poter sostituire parzialmente o totalmente agli echi preromantici, vennero utilizzati dal Foscolo non tanto per una esteriore patina antica (l’autorizzazione del “sapit antiquum” di moda), quanto per rendere piú limpida e cristallina la sua poesia, per confortare il mirabile insito piú profondamente nella mitizzazione non sempre riuscita del passionato contemporaneo e per dare una prova anche letteraria (come vedremo in alcune parti tipiche e proprio negli episodi apparentemente piú romantici e lugubri) di un possibile romanticismo indigeno, costruito con elementi della tradizione classico-italiana; dalle precise riprese di passi classici (ad esempio, il passo delle Argonautiche di Apollonio Rodio, IV, 136-138: con terrore si svegliarono le puerpere presso i bimbi innocenti, che dormivano sotto le loro braccia, scossi dal timore, esse esterrefatte protesero le braccia...[12]) alle numerose citazioni per i riti antichi a cui il Silva lo rinviava, agli spunti di vocaboli e di immagini in parte già presenti nel Commento alla Chioma di Berenice e che sono stati raccolti con grande diligenza dal Manacorda nel suo capitolo sugli Studi foscoliani (Bari 1921: Riti, costumi, reminiscenze classiche nei «Sepolcri»). Elementi per lo piú mediatori e nobilitanti, ma spesso non privi di letteraria pesantezza e di effetti di colore scuro e cupo, brunito, di violenza troppo facilmente autorizzata sulla facile scusa della sua classicità; elementi comunque piú indiretti e piú letterari rispetto ai temi a cui spetta una priorità di attenzione da parte della critica e a cui certamente il Foscolo si rivolse inizialmente come a quelli che direttamente interessavano la sua meditazione poetica, il suo punto di partenza per la poesia dal seno di una discussione contemporanea, come a quelli fra i quali poteva non solo scegliere punti di appoggio per immagini e per il suo linguaggio poetico cosí ricco, cosí composito, cosí stratificato[13], ma segnare temi di partenza per la sua composizione cosí storica e cosí personale.

Non diremmo perciò “fonti”, ma elementi di contatto vivo con la storia e la letteratura del tempo, che non spiegano certo dall’esterno l’accento e la realtà dei Sepolcri, ma che ci fanno meglio sentire la loro formazione in una creazione laboriosa e geniale dentro la storia, su di una direzione precisabile del sentimento del tempo e della crisi ideale e sentimentale fra i due secoli, fra illuminismo e romanticismo, nella coscienza e nella fantasia di un poeta che non ha maggiori ed uguali – se non in Goethe – in quegli anni di altissima tensione spirituale e poetica.

3. Il mondo spirituale e poetico dei «Sepolcri»

Il ricco e complesso dramma dell’ultimo Settecento nel suo svolgersi dalla civiltà illuministica (e fuori dal grande sviluppo dell’idealismo tedesco che Foscolo non conobbe, come non lo conobbe prima l’Alfieri, poi il Leopardi) aveva trovato nella tematica sepolcrale uno dei suoi momenti piú indicativi in sede letteraria ed un fermento essenziale per quella poesia della morte e della vita che risorge appassionata e ansiosa di eternità sul limite della morte. Momento etico-poetico in cui fermentavano insieme elementi edonistici («le plaisir des tombeaux»), travestimento sentimentale di idillio, elemento rivoluzionario della sensibilità inquieta dopo il dominio non sempre facile del razionalismo illuministico, elementi mediatamente filosofici e pragmatici (il concreto contro l’astratto razionale, la tradizione e il nazionalismo contro il cosmopolitismo, un nuovo senso della storia che pure utilizzerà vigorose premesse di un illuminismo piú ricco di quanto si possa sommariamente schematizzare), un sostanziale urgere della “persona” che chiede nuovi rapporti e nuova libertà e che sente un prepotente bisogno di affermazione illimitata e di continuità. In tal senso la poesia delle tombe (nelle sue diverse accentuazioni mistiche e civili, nel suo oscillare fra blande melanconie e richieste di una religiosità confessionale riconquistate dall’interno o immanentistica ed aperta, fra l’orrore eccitante della fossa, l’accorata elegia della tomba abbandonata e l’elegante perfezione del monumento consolatore nella patetica simpatia della natura) supera (pur avendole in sé) le condizioni di una moda (ed ogni moda al suo fondo ha ragioni importanti) e rappresenta, seppure in maniera parziale ed in sede letteraria, la problematica ideale e sentimentale dell’ultimo Settecento.

Il Foscolo (che dall’Ortis sentiva proprio intorno alla “tomba” questo ricco dramma personale e generale e che della tomba aveva fatto il simbolo essenziale della sua meditazione sulla morte e sulla vita – e gli ultimi grandi sonetti avevano presentato di nuovo in altezza lirica la «sepoltura illacrimata» e il «cenere muto», quasi chiedendo la risposta dei Sepolcri) nei mesi dell’estate-autunno 1806 riprese contatto con i termini essenziali e letterari di quella discussione trascegliendone i temi a lui cari e gli spunti utilizzabili (e quella trama incerta e sfocata, velleitaria e realizzata in forme per lo piú deboli ed incerte, venne nel suo carme a risaltare trasformata e organizzata in una luce potente e in un discorso lirico potente anche come rilievo di posizioni ideali) e in una accensione eccezionale del suo animo (in cui, come diremo, si mescolavano vitalmente impeti lirici e impeti eloquenti e pratici) li sottopose ad una propria intuizione che di essi si era alimentata e riscaldata, ma che li superava nella loro parzialità e nella loro ambigua esistenza, li investiva di luce poetica trasformandoli in una salda e nuova struttura poetica ed in uno schema ideale piú profondo e centrale.

È evidente che l’originalità dei Sepolcri è da ricercarsi nella loro vita artistica e che è impossibile separare le loro posizioni ideali dall’espressione in cui unicamente vivono, ma indubbiamente anche nella storia piú generale del primo Ottocento il Carme foscoliano mostra la sua grande importanza, l’originalità non tanto di singoli motivi, quanto della sua posizione centrale, della sua capacità di rappresentare il motivo piú profondo celato sotto le espressioni della letteratura cimiteriale, affiorante parzialmente in singoli momenti poetici.

Cosicché se da una parte il Foscolo poteva accettare – esagerando polemicamente – l’accusa del Guillon di aver ripreso i singoli temi del suo Carme dalla letteratura precedente, perché sentiva giustamente che la sua grande originalità era di poesia non di contenutistiche «invenzioni», d’altra parte, oltre che nell’originalissimo nesso vivificatore, nel nuovo rilievo di una costruzione animatrice di quegli sparsi motivi ripresi e trasformati, il Foscolo poteva sentire la grandezza e la novità del suo Carme nella profondità con cui aveva ripreso e trasformato originalmente il denso dramma che si celava sotto il problema delle sepolture, con cui aveva accettato la vecchia e contemporanea discussione nel suo centro piú intimo. Sotto i singoli temi utilizzati (e abbiamo visto come il Foscolo avesse soprattutto ripreso i temi della linea sepolcrale laica e civile servendosi però del fermento piú sensibile e melanconico della linea “inglese” specie nella posizione delle domande iniziali) il Foscolo aveva risentito, nel suo problema personale di relazione fra illusioni e realtà, il problema drammatico dell’uomo che nella tomba cerca disperatamente una continuità, non un semplice punto di annullamento, e che nel momento negativo, nella «luttuosa catastrofe» dell’individuo (per adoperare le parole del Silva), senza ricorrere a compensi ultraterreni, accettando dunque il limite tragico della vita individuale e vivendolo pienamente senza riserve (e d’altra parte quasi con religiosa serenità e senza quella specie di voluttà d’annullamento nella materia che era risuonata nell’Ortis), cerca una via di risalita e di salvezza che non possa essere colpita come «frivola speranza», come «speranza stolta», «onde consola sé coi fanciulli il mondo» (secondo l’espressione leopardiana), qualificandola come illusione, ma vitale ed effettivamente operante nei limiti della condizione umana.

L’insoddisfazione dello spirito romantico dentro le linee del pensiero illuministico aveva già trovato nell’Alfieri profondi impeti di ribellione, specie nelle lettere in cui, senza anticipare affatto posizioni di fede (né molto serve in tal senso il noto sonetto sul culto cattolico né gli aneddoti foscoliani sull’ultimo Alfieri che andava nelle chiese fiorentine a sfogare il suo umore tetro, il suo bisogno di solitudine e di meditazione), si precisano contro il razionalismo illuministico e materialistico accese posizioni di «illusioni vitali» fino a quella – razionalmente negata – della sopravvivenza individuale, accettata in una pagina bellissima, proprio come illusione generosa e nell’urto appassionato contro ogni pacifica mediocrità.

Nella lettera a Teresa Regoli Mocenni del 10 dicembre 1796 dopo la morte del suo amante Mario Bianchi, l’Alfieri scriveva:

Alcune opinioni son piú utili e soddisfano piú il cuore ben fatto, che altre. Per esempio, giova assai piú alla fantasia e all’affetto il credere che il nostro Mario sia col Candido[Pistoj, NdR] e col Gori, e che stiano parlando e pensando di noi, e che li rivedremo una volta, che non di crederli tutti un pugno di cenere. Se tal credenza ripugna alla fisica e all’evidenza gelida e matematica, non è perciò da disprezzarsi; il primo pregio dell’uomo è il sentire; e le scienze insegnano a non sentire. Viva dunque l’ignoranza e la poesia, per quanto elle possano stare insieme; imaginiamo, e crediamo l’imaginato per vero: l’uomo vive d’amore, l’amore lo fa Dio; ché Dio chiamo l’uomo vivissimamente sentente; e cani chiamo o francesi, ch’è lo stesso, i gelati filosofisti, che da null’altro sono mossi fuorché dal due e due son quattro (Lettere scelte, a cura di W. Binni, Torino 1949, p. 139).

Nel Foscolo il controllo sui propri impeti era maggiore e piú severa la fedeltà ad una linea di pensiero che non ammetteva facili vie d’uscita, provvisorie del resto nello stesso Alfieri.

Nel Foscolo – come poi e con maggiore complessità filosofica nel Leopardi – (Alfieri, Foscolo e Leopardi rappresentano una tradizione romantica tutta particolare nella nostra letteratura) la cultura illuministica-materialistica è accettata nei suoi punti fondamentali, ma condotta a conclusioni romantiche inevitabilmente drammatiche e pessimistiche, ad un singolare ingorgo di ansia vitale, di aspirazioni infinite, di limiti duri accettati con estremo coraggio, da cui risulta una possibilità poetica tutta legata a quella condizione storica.

L’aspirazione di quel tempo ad una «bellezza immortale», sorta nelle condizioni di una caducità umana inevitabile (le cose che per diventare belle devono morire, la gioia che è sempre sul punto di dire addio, ecc.), nel Foscolo trova una giustificazione piú profonda e chiara, in uno sforzo di vita a vincere la morte (sentimento, storia, poesia), alla presenza costante della morte mai negata razionalmente, nell’opera di valori-illusioni che si affermano nella catastrofe (Ajace, Ettore) dell’individuo. Il fatto tragico della morte non è aggirato e si lega ad una visione disillusa della vita come trasformazione della materia, come regno del «cosí è, cosí deve essere» (e qui soccorrono al chiarimento della posizione foscoliana fra materialismo e vichianesimo i Frammenti su Lucrezio, l’Orazione sui limiti della giustizia), mentre, su questa constatazione accettata con severità meditata, la vita viene di nuovo affermata con i suoi colori piú luminosi, con la sua apertura infinita nel campo dell’attività generosa degli uomini.

Il Foscolo nei Sepolcri congiunge la conclusione del materialismo settecentesco ad una apertura romantica, ma si badi bene (e qui le osservazioni critiche del Rosmini possono avere la loro utilità come persino quelle tendenziose del Tommaseo circa i rapporti fra Foscolo e Vico), questa apertura è del tutto particolare e non conduceva alla civiltà romantica quale effettivamente si configurò nel suo storicismo e nel suo spiritualismo: e l’adesione alle conclusioni materialistiche non fu mai ritirata e quel mondo di valori-illusioni che tanto alimentò poi il Risorgimento italiano rimase tuttavia – tanto piú ricco poeticamente – pur sempre un mondo alto di illusioni, un modo particolarissimo di affermazione vitale, non un sicuro e immediato attacco con la civiltà romantica delle «magnifiche sorti e progressive», del cattolicesimo liberale manzoniano, e neppure dell’idealismo umanitario mazziniano.

Il Foscolo offrí all’Ottocento la sua potente visione della critica, il suo nazionalismo generoso, il suo vivo senso della realtà politica, ma nel campo della poesia, dove egli vive in assoluto, rimane pur sempre in una via particolare, in una condizione che lo limita e ne esalta la potenza di originalità, tutto ricco di fermenti nuovi, tutto vicino ad una svolta feconda del primo Ottocento, ma rinserrato da limiti settecenteschi che danno alla sua affermazione vitale una forza piú esplosiva, una luminosità piú eccezionale.

Né le vaghe effusioni di un Lamartine, né il Weltschmerz scadente del pieno romanticismo, né la feconda costruttività dei romantici appoggiati all’idealismo tedesco: la sua poesia nasce (e i Sepolcri in tal senso ne sono il documento piú probante come le Grazie ne rappresentano lo sviluppo piú sicuro e dominato) come inno alla vita sempre bisognosa di consolazione, come affermazione della vita in presenza della morte ed entro una concezione materialistica triste e severa superata nell’impeto generoso del sentimento, della continuità storica e della poesia, ma effettivamente sempre presente, sí che il carme si chiuderà con una catastrofe, con una morte (non con un inno inebriante), e il limite della vita umana e della vita cosmica sarà ribadito accanto al motivo dell’eroismo sfortunato, del generoso patriottismo, della poesia eternatrice, voce superiore di una umanità eroica e sventurata.

E tu onore di pianti, Ettore, avrai

ove sia santo e lagrimato il sangue

per la patria versato, e finché il Sole

risplenderà su le sciagure umane.

È l’eroismo generoso e sfortunato che ha onore di pianto, di lacrime, sullo sfondo limitativo e grandioso di un mondo desolato e caduco anche nel suo simbolo vitale piú alto, il Sole, che risplende sulle sciagure degli uomini.

Certo, i Sepolcri rappresentano un momento eccezionalmente vitale nella poesia foscoliana e la loro prima forza consiste proprio nello sgorgare impetuoso delle illusioni-valori, in questo rapido e grandioso accompagnarsi di motivi vitali su di un grande paesaggio affascinante, ma quel paesaggio è pure un paesaggio cimiteriale (o visto intorno ai cimiteri come il paesaggio fiorentino intorno alle tombe di S. Croce), quei motivi sono esaltati proprio perché nascono confortatori di una situazione di dolore effettivo, in assoluto invincibile, e quella vitalità, quel senso lieto e affascinante dell’«armonia del giorno» ci seduce proprio perché risuona sul limite della morte e di una visione dura, disingannata della realtà. Perciò quella poesia è tanto piú intensa e luminosa perché nasce da un’aspirazione tanto potente e tanto difficile, tanto condizionata e costretta da una immanente tragedia riconosciuta ad occhi limpidi.

Tale condizione si ripresenterà con una forza piú concentrata e scavata nel grandissimo Leopardi e naturalmente Foscolo non fu Leopardi[14], anche per il senso piú mondano della vitalità assicurata piú in estensione, piú in società, piú in volontà pragmatica (l’eloquenza patriottica, per esempio); ma nelle particolari coordinate foscoliane tale constatazione serve bene a meglio sentire nella sua origine piú profonda, personale e storica, l’incanto della poesia dei Sepolcri, la sua originalità e storicità in quella crisi accennata dalle varie linee della poesia sepolcrale e potentemente incisa dal Foscolo in una linea essenziale ed unitaria. Fra la ricerca di una nuova religiosità laica e civile, di una continuità sopraindividuale in cui non vada perduta l’energia spesa dall’individuo generoso e la rivolta dell’individuo ad una visione puramente razionalistica e ottimistica della vita che lo conduce attraverso un turbamento di sensibilità o ad uno spalancarsi di orrore lugubre o ad agganci a soluzioni confessionali e deistiche riconquistate, il Foscolo ha fermato, ricollegandosi rapidamente allo svolgimento essenziale della sua vita intima dall’Ortis ai grandi sonetti, una linea centrale a cui la presenza di Vico dette un rinforzo essenziale anche se piú stimolante che costantemente accettato da un punto di vista filosofico[15].

Il vichianesimo permetteva al Foscolo di superare le considerazioni di piccola politica dei sepolcrali francesi e di introdurre un ritmo essenziale nello svolgersi delle illusioni-valori, nel passaggio dal valore sentimentale e privato della tomba a quello storico e civile e patriottico senza con ciò rompere l’iniziale visione materialistica della realtà e della situazione infelice degli uomini che fa da base del potente chiaroscuro caratteristico dei Sepolcri[16] e che potenzia, limitandone una piú facile soluzione, l’aspirazione dell’animo foscoliano a superare la frattura della morte e la ferrea necessità naturale (che nelle Grazie si riprospetterà soprattutto come istinto belluino di strage e di preda nel cuore degli uomini), il bisogno di una continuità dell’attività generosa.

Nasceva cosí nelle particolari condizioni della cultura foscoliana non tanto un urto fra posizioni illuministiche e posizioni romantiche (che per il Citanna provocherebbe l’incertezza e gli squilibri del Carme), quanto una specie di duplice ed unitaria considerazione della vita umana nella sua drammatica realtà, essenziale per la poesia dei Sepolcri nel suo svolgersi dinamico, a contrasti ed a rilievi forti, a forte «chiaroscuro», con forte risonanza degli elementi luminosi e vitali proprio per la vicinanza e la presenza della morte e della severa visione materialistica.

Il poeta rivedeva la vita umana nella sua realtà infelice e resa tragica dalla morte e nella sua aspirazione a vivere, a crearsi conforti ed effettive condizioni non di «magnifiche sorti e progressive», ma di civiltà generosa ed eroica non ignorando la propria situazione o accedendo a spiegazioni mitiche, anzi meditando e insistendo proprio sulla propria fragilità, sulla tragedia della morte. Mentre il Foscolo manteneva la sua visione amara e severa della realtà come trasformazione di materia e della vita politica come urto di forza e «fraterna strage»[17] e nei Sepolcri a chiare note ribadiva tale sua concezione, contemporaneamente dal punto piú sensibile (il sepolcro) sviluppava una serie coerente e parallela di illusioni-valori, tanto vitali ed efficaci quanto inseparabili dalla loro base di origine di «ristoro», di «consolazione». Un arco altissimo di sentimenti che si costituiscono come illusioni-valori (corrispondenza di amorosi sensi, sentimento della tradizione civile, sentimento patriottico, sentimento della poesia come voce suprema di immortalità) si innalza dal sepolcro, si svolge dalla realtà dolorosa e si chiude su di una nuova, piú alta presenza delle «sciagure umane», nell’atmosfera assoluta e universale del mito antico. Canto sacro di una umanità eroica e dolorosa il cui significato supera quello di un inno patriottico, anche se il Foscolo insisté sempre, a proposito dei Sepolcri, sul loro valore politico e sulla loro occasione di sfogo antinapoleonico.

In realtà l’elemento politico-patriottico agí nella genesi dei Sepolcri come l’elemento piú stimolante, quasi l’esponente vistoso di quel «passionato» che il Foscolo nel Commento aveva indicato nelle passioni della società del proprio tempo (e di passione e di cieca passione[18] il Foscolo parlò piú volte a proposito dell’amor di patria che pure chiamava «illusione pur troppo come tutte le umane cose», Ep., I, p. 558). Nel pretesto del Carme («pur nuova legge») il Foscolo univa ad una protesta generale contro una mentalità grettamente egualitaria, mortificatrice dei fermenti piú preziosi dell’umanità, dei suoi sentimenti consolatori ed altamente civili (e qui il carme meglio si legava alla crisi-sviluppo da illuminismo a romanticismo), una protesta piú particolare, piú violenta e appassionata, capace di polemica e di satira, contro la servitú italiana, contro il meschino opportunismo conformistico («liberal carme» sono veramente i Sepolcri) della classe dirigente del regno italico (che peggiorava i difetti della repubblica italiana contro i cui dirigenti il Foscolo aveva già scritto nel 1802 l’Orazione a Bonaparte), e capace insieme di farsi esortazione, invito ardente agli italiani per la loro rinascita nazionale. Nell’accento di culto patriottico che Alfieri e Foscolo hanno introdotto nel costume risorgimentale (nel 1821 l’Ornato parlerà dell’Alfieri come del «nostro santo»), il motivo nazionale romantico (legato ad un sentimento romantico valido per ogni nazione, per ogni patria, ed infatti nel finale sacro sarà il sangue per la patria versato, per ogni patria) ha nei Sepolcri una particolare importanza di tensione e vitalità e insieme può rappresentare il pericolo di maggiori concessioni all’eloquenza, alla volontà di effetto. Certo il lettore moderno deve risentire questo elemento nel suo valore storico e romantico, ripulirlo dalle impure impronte di altre mani e di altre spiritualità (il nazionalismo foscoliano corrisponde ad un momento storicamente importante e di valore generale dopo il cosmopolitismo settecentesco, e il nazionalismo moderno bellicista e dilettantesco, provinciale e scolastico è di quello la deturpante caricatura) per apprezzarne l’intensità e la purezza che ebbe nello spirito foscoliano. Tuttavia anche cosí storicamente restaurato e sentito nell’intera gamma di motivi romantici che urgono nei Sepolcri nello sviluppo della crisi illuministica, quell’elemento cosí necessario e vitale nel Carme rappresenta anche la radice di tanti movimenti eloquenti, l’indice di una intima confusione fra eloquenza e lirica, fra poesia e volontà di persuasione e di azione che mentre dette ai Sepolcri un particolare fascino nell’epoca risorgimentale, ha reso sospettosi e guardinghi (e spesso per contrasto, in maniera eccessiva) i lettori moderni.

4. Lirica ed eloquenza nella poetica dei «Sepolcri»

Per spiegarci la particolare natura dei Sepolcri, e per renderci conto degli squilibri poetici e dei pericoli che, ignoti agli uomini dell’Ottocento, urtano con particolare forza nella nostra lettura di uomini educati ad una poesia antiretorica, paurosi di ogni confusione fra poesia ed eloquenza e persino a volte viziati da una concezione di “poesia pura”, di lirica essenziale che può giungere ad inibirsi ogni impegno fino a ridursi esangue e calligrafica, dobbiamo calcolare in sede di poetica il particolare equivoco fra poesia ed eloquenza che il Foscolo mantenne (e il Leopardi riprese nel periodo giovanile, delle canzoni patriottiche) nella sua concezione della lirica[19] e che ebbe in lui particolare accentazione proprio nel periodo dei Sepolcri fra la Chioma di Berenice e le lezioni pavesi.

Nel periodo dei Sepolcri, sulle proposte essenziali del Commento alla Chioma di Berenice (magnificare le passioni umanizzando gli dei e immortalando gli umani, unione di mirabile e di passionato, canto lirico che non conosce indugio descrittivistico e si ribella nella sua esigenza di messaggio storico e solenne al «vuoto suono e lusso letterario», alla poesia ragionatrice e illustratrice, al sentimentalismo privato preromantico), l’unione di eloquenza e lirica si era fatta prepotente ed esplicita, legata com’era non ad un bisogno di amplificazione montiana, di vaga ornamentazione eloquente e immaginosa, ma all’esigenza di un entusiasmo capace di passare nell’animo dei lettori, di agire sull’animo altrui, di comunicarsi in condizioni alte ed eccezionali (il «liberal carme» che non toccherà il leopardiano «vario volgo a’ bei pensieri infesto», ma le anime «forti» inevitabilmente rare come nel pensiero alfieriano del Dialogo della virtú sconosciuta). Anzi la poesia, mentre non cercherà la facilità, la comprensibilità dei romantici 1816, non si riterrà valida se non nella capacità di trasmettere entusiasmo (e il Bettinelli nel ricco saggio Dell’entusiasmo confortava questo bisogno di comunicazione e di affetto che una poesia di altro gusto non considererà o addirittura ripudierà).

Ecco infatti che nel Discorso sopra la poesia lirica del 1811 (uscito nel maggio 1811 negli «Annali di scienze e lettere») il Foscolo insisterà sull’entusiasmo come caratteristica della lirica, che «canta con entusiasmo le lodi de’ numi e degli eroi» (Opere, Ed. Nazionale, VII, p. 325), e poi, preoccupato di distinguerla da quella amorosa (p. 327), impropriamente, secondo lui, chiamata lirica, per bocca del Borgno (Gerolamo Federico Borgno, Sul carme di Ugo Foscolo dei Sepolcri e sulla poesia lirica; tradotto dal latino, nella edizione Silvestri, Milano 1813) ribadirà e il particolare soggetto della lirica (non privato, ma storico e universale) e il suo carattere di comunicabilità, di «eccitazione», la sua alleanza e quasi fusione con l’eloquenza, mezzo di comunicazione e insieme calore entusiastico scarsamente precisato nella sua natura, ma fortemente invocato nell’espressione lirica come suo naturale ed indispensabile coefficiente di tensione.

Ma una delle cause principali, per cui questo carme c’inebria d’un piacere profondo, soave, e indistinto, si è, che il poeta, dopo aver sentita l’ammirazione, l’amore, la malinconia, la magnanimità, l’ira, il dolore, e tutti i sentimenti eccitati in lui dall’argomento, e dopo d’avere idoleggiati, coloriti ed animati quegli affetti con tutte le tinte ed il fuoco della fantasia, egli li presenta ai lettori, e trasfonde in essi la stessa ammirazione, lo stesso amore, la malinconia, la magnanimità, l’ira e il dolore ch’egli sentiva meditando e scrivendo. Ma questa facoltà di trasfondere in altri, per cosí dire, la propria anima, che è dote essenziale dell’eloquenza, e spezialmente della poetica, è facoltà tutta naturale, e che nessuno studio può mai farci acquistare. E nondimeno non sarebbe riuscita a tanto effetto, se il poeta non avesse esaminati, e paragonati i sentimenti, che la lettura de’ grandi scrittori gli eccitava nell’animo, e nella mente; e se non avesse considerate praticamente, ed esplorate nel cuore degli uomini le vie per cui si trova adito a commuoverli, a convincerli e a persuaderli; e qui unicamente sta l’arte, e cosí l’arte può perfezionare la natura (op. cit., pp. 99-100).

E il Foscolo in una delle lezioni pavesi precisava:

Tutta la letteratura d’ogni nazione consiste ne’ poeti, negli oratori e negli storici; l’eloquenza è la facoltà che dà colorito disegno ed anima a queste tre parti della letteratura. Qualunque siane la materia che i poeti, gli oratori e gli storici trattino non rileva: purché sia animata dall’eloquenza, anche l’agricoltura diventa poetica in Virgilio; la politica, la giurisprudenza e la metafisica, diventano oratorie in Machiavelli ed in Montesquieu, ed in Platone; l’astronomia e l’anatomia stessa degli animali diventano sublimemente storiche nella penna di Bailly e di Buffon. Ora l’eloquenza, ch’è il carattere generale ed ingenito della letteratura, distinguesi da ogni altra facoltà ed arte dell’uomo, perché esercita l’intelletto non per mezzo dei sensi come la musica e la pittura, non per mezzo del raziocinio come fanno i calcoli matematici e le dimostrazioni scientifiche, bensí per mezzo del calore delle passioni e della energia della verità. L’eloquenza insomma, qualunque argomento maneggi, e sotto qualunque forma, in prosa od in versi, deve ottenere che il cuore senta, che l’immaginazione s’infiammi, che le idee si dipingano vive, calde e presenti dinanzi la mente, e che queste fortissime sensazioni ed idee risveglino ed invigoriscano l’attività della nostra ragione, e ci facciano non tanto calcolare la verità quanto sentirla e vederla (Opere, VII, p. 102).

Posizione complessa[20] in cui motivi romantici nuovi si mescolano con le vecchie definizioni dell’eloquenza: la sua stessa comunicabilità a diverse forme espressive indica nella sua ricchezza qualcosa di piú confuso e generico, vitale per il Foscolo, stimolante per la sua poetica (e si ripensi all’entusiasmo del Bettinelli), ma pericoloso per la purezza della sua poesia, tanto che lo stesso poeta vagheggiò in quell’epoca come necessario contravveleno ai suoi impeti la limpidezza, la «nobile semplicità» omerica.

E l’eloquenza era altresí nel «passionato» potentemente legata al motivo storico-patriottico; ancora una volta una profonda esigenza romantica di concretezza e una pericolosa accentuazione dell’elemento volitivo ed oratorio.

La poesia, la storia e la facoltà oratoria, che costituiscono la letteratura di ogni nazione, non cangiano se non le apparenze, perché tutte stanno nell’eloquenza. Poiché la letteratura d’una nazione è annessa al clima, agli usi, alla religione, alle leggi, alla fortuna della stessa nazione, chi non ama la sua patria, non può essere utile letterato» (Lezione prima, Su la letteratura e la lingua, Opere, VII, p. 53).

Cosí superando l’edonismo insignificante e il mediocre didascalismo dei contemporanei, in un senso alto e originario della parola, il Foscolo toccava però il pericolo di una oratoria (sia pure altissima) nella esigenza di una eloquenza («facoltà di persuadere») nutrice della poesia: persuadere come naturale vita della poesia che incanta e ci riempie di sé, ma anche persuadere in senso pratico, oratorio, non poetico.

Altissima eloquenza, eloquenza per la poesia e da questa inseparabile, eloquenza per il «passionato», ma causa di colori qua e là eccessivi, di impeti non sempre mediati nell’altezza del mito poetico, come invece avviene piú costantemente nell’ultima parte del Carme.

Nell’ispirazione e nella costruzione del Carme la tensione della “lirica” agí cosí insieme come coefficiente poetico e come accentuazione eloquente. Radicalmente unito e giustificato nella poetica della “lirica” entusiastica, l’impeto lirico-eloquente porta con sé pericoli che ogni lettore esperto avverte nei Sepolcri e di cui ci si deve render conto non per impossibili tagli antologici ed impossibili epurazioni (che toglierebbero insieme la radice del bene e del male), ma per una comprensione ed un avvicinamento di quel capolavoro nel suo vivere concreto, nelle condizioni particolari in cui si è formato.

Dopo l’accettazione integrale ed entusiastica dell’Ottocento risorgimentale che aveva sentito l’appello foscoliano anche nella direzione voluta dal Borgno («L’ardore e l’entusiasmo destato e fomentato da questi cantici – della rivoluzione francese – quanto giovò a sconfiggere i nemici ed a far trionfare la nazione sopra ogni altra di Europa!» – p. 118) e insieme aveva condiviso l’equivoca concezione della lirica-eloquente (e si pensi ancora nel secondo Ottocento alle poesie civili e patriottiche del Carducci e sin nel primo Novecento alla scadente retorica delle Canzoni d’oltremare del d’Annunzio), la critica di origine crociana ha giustamente liberato i Sepolcri dal loro dubbio privilegio di indiscutibilità ed ha iniziato un processo di revisione dei vecchi giudizi[21] che giunse, per reazione e per esasperazione del criterio di distinguere fra poesia e non poesia, fino alla proposta di considerare il carme come una collana di liriche dentro una struttura ragionativa ed eloquente, impacciante e riflettente un urto insanabile fra posizioni illuministiche e romantiche.

Da un punto di vista piú distaccato e storico, mentre si deve reagire alla tesi estrema della «collana di liriche» e superare comunque la confusione fra nobile eloquenza foscoliana cosí vitale ed originale e l’eloquenza nazionalistica di altre epoche, d’altra parte, proprio per comprendere la singolare natura dei Sepolcri e per collocarli in un preciso momento della poesia foscoliana (diversa sia dalla produzione precedente piú “autobiografica”, sia dalle Grazie in cui il principio della lirica alta viene però applicato con una totale vittoria sugli impeti piú eloquenti e il passionato e il mirabile sono fusi con tanta maggiore costanza e in condizioni nuove di maggiore serenità), si deve riconoscere, entro una coerente poetica, un afflato lirico-eloquente, in presenza radicale e inseparabile di una forza non puramente poetica che arricchisce e turba il carme nel suo dinamico svolgimento affiorando piú pericolosamente in quadri ad effetto, in punte polemiche e satiriche meno mediate poeticamente in esortazioni frementi, ma insieme sollecitandone il “crescendo” sino al punto piú intenso e complesso delle tombe di S. Croce. Piú alta e sicura diviene la poesia quando, dopo la maggiore espressione dell’impeto lirico-eloquente, il passionato perde il suo carattere piú urgente (ma lo perde perché piú completamente sfogato e bruciato nell’episodio di S. Croce) e si media in un’alta atmosfera di mito antico e universale, in una tensione piú intima e meno impetuosa, in una intonazione piú sacra e distaccata. Ma, ripeto, a questa altezza finale i Sepolcri non potevano salire che attraverso lo svolgersi complesso dei tempi precedenti, quella maggiore purezza era acquistata attraverso un arricchimento non privo di rischi e di parti meno veramente poetiche, il grandioso canto finale (vera voce assoluta di un’umanità eroica e sventurata, canto che supera polemiche e sdegni piú particolari) presuppone la concretezza “contemporanea” degli episodi piú eloquenti, si scioglie cosí limpido e profondo dopo un ingorgo di impeti che han dato risalto alla sua purezza e arricchito la sua vitalità.

I Sepolcri vanno dunque letti tenendo conto della loro generale unità d’impeto lirico cui una componente di eloquenza si è radicalmente intrecciata, del loro svolgimento dinamico attraverso tempi (il termine musicale vuole accentuare il carattere di unità sinfonica dei Sepolcri) che portano particolari intonazioni (il principio della «unità e varietà» meglio invocato per le Grazie fu già tenuto presente dal Foscolo nella composizione del carme per il quale il Borgno parlava persino di «magnifiche digressioni») e pur si uniscono in un generale crescendo che trova la sua acme lirico-eloquente nel tempo delle tombe di S. Croce ed apre la via al piano piú alto e costante dell’ultimo tempo.

E si può dire che, se dall’alto dell’ultimo tempo meglio si può vedere la necessità degli altri tempi, il loro legame di sviluppo, e d’altra parte i loro diversi limiti di intero risultato poetico, anche nella compresenza dei vari tempi meglio si sente la ricchezza del carme, meglio si apprezza la complessità in profondo dei singoli tempi. Cosí il primo tempo cosí unitario e vivo nella sua intensa cadenza mesta ed armoniosa risuona di ben altra forza rispetto al blando sentimentalismo elegiaco pindemontiano (che pure vi è richiamato nei suoi echi essenziali), in quanto implica nel fondo generale del carme la presenza del motivo eroico, del compianto sulle sciagure umane, il valore della poesia immortalatrice, che trovano espressione piú diretta in altri “tempi”, e il tempo grandioso delle tombe di S. Croce sarebbe davvero ben piú oratorio se non presupponesse l’approfondimento affettuoso della religione privata delle tombe e d’altra parte l’eco piú solenne e desolata del movimento delle rovine che approfondisce quanto in quel tempo vi è di troppo lucente ed entusiastico.

5. Lettura dei «Sepolcri»

Il primo tempo (vv. 1-50) elegiaco e armonico (il tono della «mesta armonia» realizza ed unifica il fascino luminoso e nostalgico dell’«armonia del giorno» e la trepida mestizia degli interrogativi dolenti, delle domande sul valore del sepolcro) mantiene una unità piú facile e costante fuori dagli impeti piú grandiosi e rischiosi. Esso costituisce una lunga introduzione dalla domanda alla risposta atteggiata come controdomanda suadente e tenera, sulla stessa curva elegiaca degli interrogativi, a cui corrispondono movimenti di esclamazione poco sonante, sommessa e sospirosa («Vero è ben... Celeste è questa»), rappresenta non solo un attacco di discorso poetico piú lento, piú sommesso e funzionale a sviluppi piú tesi e ad alta voce (e l’inizio ad epistola poté corrispondere a una prima idea del carme, ma bene coincise con una funzione di questo inizio nel lento crescendo del carme), ma la base essenziale di tutti i Sepolcri, la grandiosa esaltazione delle tombe nella loro funzione civile e storica, trova un appoggio sensibile, concreto, affettuoso in questa modesta religione del sentimento che riguarda non solo i grandi, ma ogni mortale in cui la vita degli affetti abbia superato come aspirazione il meccanico trasformarsi della materia.

Nell’onda luminosa e malinconica dell’inizio l’essenziale chiaroscuro, che piú avanti verrà dilatato in contrasto di quadri, è presente in un incontro piú sicuro (l’urne «confortate», il sonno duro della morte) di vita e morte, di espressioni affascinanti e nostalgiche dell’armonia vitale e di indicazioni sobrie ed intense dell’annullamento e della ferrea legge della trasformazione della materia (a proposito della quale si può osservare già un tono piú austero e solenne che unirà poi la presentazione di questa continuità necessaria della natura e quella della continuità dell’umanità nelle sue tradizioni solenni[22]).

Il tema enunciato nel primo interrogativo[23] in questa intonazione di elegia e di chiaroscuro sensibile e patetico si ripropone con larghezza nella seconda domanda, che riprende l’essenziale modulo della prima allargandolo in un periodo mirabile di complessità e di armonia (lo stesso procedimento sarà adoperato per effetti di impeto ricco e complesso, mentre qui serve ad esprimere l’abbandono patetico ed elegante di una visione luminosa della vita in presenza della morte che annulla tutte le gioie dell’individuo), appoggiato all’immagine-simbolo del Sole e alla posizione forte del pronome personale («per me», poi «a me») che accentua il legame del tema con un interesse personale non fittizio: il Foscolo apparirà poi a piú riprese fino alla figurazione piú alta dell’evocatore di eroi, ma qui appare con tutta la sua ansia di vita e la sua personale meditazione su di un tema non retorico e astratto, ma vivo e partecipato con tutto l’animo e legato alla propria elegia personale. Il movimento bellissimo e perfetto (costruito su membri uguali di coppie di versi che dal v. 10 si allarga in una serie di tre versi – 10-12 – a cui rispondono i tre versi della domanda finale) porta nella mesta armonia (che richiama l’eco piú intimo e foscolizzato della poesia del Pindemonte in una sottile mediazione di suggestioni letterarie omogenee al tono poetico dominante, come vedremo poi nel caso del Parini e dell’Alfieri[24]) una luminosa visione di vita nei suoi affetti essenziali (bellezza di paesaggio, fascino del futuro, poesia ed amore), culminante nella figura leggermente mitizzata delle ore future danzanti «vaghe di lusinghe»: figura e suono che realizza questo movimento sentimentale e poetico essenziale di nostalgia per cose belle e fuggenti. Il movimento che segue (vv. 16-22) si apre con un’altra apparizione di figura bella e fugace (la Speranza suscitatrice di vita anche nella infelicità) e con un chiaroscuro piú netto svolge in un tono desolato e solenne il tema della morte che adegua i resti dell’individuo ad ogni altra parte di materia soggetta ad un’incessante e vitale trasformazione.

Una nuova serie di domande (vv. 23-29) media la risalita ad una illusione consolatrice sempre dentro l’intonazione della mesta armonia, dell’elegia che si fa trepida e affettuosa intorno al gracile-germe di una nuova vita, intorno alla nuova vita del morto («non vive ei forse anche sotterra...») che nelle «soavi cure» provocate nei suoi dal culto delle tombe può vivere ancora in quanto suscita (ma si noti l’estrema leggerezza del verbo «desta» e la sua coerenza a questa operazione soave e tutta sentimentale) nei suoi quell’armonia vitale che il dolore e la morte avevano interrotto[25].

Il movimento seguente (vv. 29-40) sviluppa la risposta confortatrice e sullo spunto di una lieve enfasi («celeste è questa... celeste dote...») presenta in una serie di condizioni tradotte effettivamente in immagini della nuova religione dei sepolcri (quelle stesse immagini di conforti che nelle domande iniziali erano apparse inutili di fronte alla morte dell’individuo) tutto un affettuoso, patetico piegarsi di persone e di paesaggio intorno alla tomba. E la lunga sequenza si risolve nella bella e compatta coppia di versi che nel loro suono eletto e sensibile, sostenuto e patetico ben rappresentano e la tipica cadenza di questo tempo e un accordo del linguaggio dei Sepolcri cosí elegante, neoclassico (si pensi alla forma «arbore amica» rara e latineggiante) e insieme tutto intriso di sentimentalità romantica che permea anche gli elementi di paesaggio (l’albero che consola le ceneri).

Un ultimo movimento (vv. 41-50) chiude il tempo determinando poeticamente, sempre nella forma poco recisa di questo tempo (interrogazioni, o condizionali o negazioni che celano effettive affermazioni), la sensibile immagine della tomba consolata dalla presenza di «molli ombre», dalla preghiera di una «donna innamorata», capace di parlare a qualsiasi umano che le passi davanti. E nel determinare la «gioia dell’urna» (caratteristica frase di questa prima zona di religione sentimentale delle tombe in un ambito di affetti privati e vista soprattutto da parte dell’individuo destinato a morte) un chiaroscuro particolare si precisa nel confronto fra la tomba consolata e capace di colloquio e il mito di un al di là freddo e stilizzato riserbato alla immaginazione dell’uomo senza affetti.

Espressioni solenni e letterarie, ma gelide e veramente funerarie (gli «acherusia templa» di Lucrezio, il «sub umbra alarum tuarum» del Salmista), indicano il distacco assoluto con cui il Foscolo sentiva il «compenso» per lui vano di una sopravvivenza ultraterrena. Il Foscolo, senza dare a tale affermazione nessuna punta polemica ed anzi inserendo queste eleganti e fredde immagini in un complesso che culmina in quella vita della tomba che consola con la sua sicura immagine il pensiero dell’uomo che «lascia eredità d’affetti», rifiutava ogni accenno alla soluzione di una sopravvivenza individuale che non lo interessava nella via presa dalla sua meditazione poetica e che avrebbe scaricato tutta l’energia della sua aspirazione ad una speciale vita oltre la morte non in un altro, ma in questo mondo[26].

A questo tempo di «mesta armonia», di elegia patetica e consolatrice («ristoro», «consolare», «gioia dell’urna», «armonia del giorno», sono espressioni fondamentali di questa elegia che compiange e consola, che dal momento tragico della morte, annullamento della vita individuale, canta il sorgere della «celeste corrispondenza d’amorosi sensi»), segue un secondo tempo (vv. 51-90) in cui si intreccia il tema della fossa comune conseguenza di provvedimenti inumani e scioccamente egualitari[27], e quello ben piú poetico dell’affettuosa rievocazione del Parini. È questo secondo tema quello che lega meglio il nuovo tempo con il primo come sensibile, poetico esempio di una «corrispondenza d’amorosi sensi» per la quale «si vive con l’amico estinto e l’estinto con noi», anche se questo esempio si complica con il primo tema, piú sforzato e pur necessario allo svolgimento del carme, del vergognoso trattamento fatto dai milanesi al loro poeta, incuranti di quel valore delle tombe dei grandi che apre la via ai tempi successivi.

È il tema del Parini rievocato affettuosamente (e insieme spunto della polemica e del quadro ad effetto che turbano la poesia piú sicura del tempo) quello che porta piú poesia e involge con la sua tenerezza soave e dolente le stesse parti piú oratorie e lugubri, riprendendo il tono sommesso e «pietoso» del primo tempo e precisandolo nell’espressione di un sentimento individuato e storico, nel colloquio affettuoso con la musa, nella rievocazione-evocazione della musa e della sua relazione con il poeta da lei consolato nella sua vita povera e casta di sacerdote della poesia, di elegante correttore di costumi. E tutto il movimento che va fino al v. 69 ha un’intonazione blanda e affettuosa, nobile e patetica nell’inclinazione di un ritmo rievocativo («e tu gli ornavi... e tu venivi e sorridevi») di estrema delicatezza e di contenuto abbandono entro il quale una lieve e abilissima ripresa di toni pariniani (i toni delle grandi odi neoclassiche, dell’ode Alla Musa, i toni della satira elegante del Giorno; vv. 58-61) serve a far concretamente rivivere il ricordo del poeta ed amico nella sua stessa voce (come in parte era avvenuto prima per il Pindemonte, poi per l’Alfieri), quasi a rendergli un concreto omaggio e a far sentire nel proprio verso la presenza stimolatrice del suo verso. Una rievocazione affettuosa e soave resa piú intensa dall’eco di un ricordo personale (il giardino di Porta Orientale dove si svolgono i colloqui ortisiani fra Foscolo e il vecchio Parini) e dall’accordo con la propria personale elegia («fra queste piante ov’io siedo e sospiro / il mio tetto materno») culmina nella precisa indicazione di un luogo e di una pianta[28] (“quel” tiglio e non piú una qualsiasi «arbore amica») cortese di calma e d’ombre. Ma in queste ultime battute compare un lieve accenno di cambiamento dentro l’aura soave dominante nel fremere del tiglio che prelude al nuovo movimento in cui il tema polemico si sviluppa sino ai vv. 85-86, quando l’intonazione piú pura e poetica torna a dominare ed a chiudere in un lamento alto e contenuto questo secondo tempo.

Il movimento polemico contro Milano «la città, lasciva / di evirati cantori allettatrice» (e ancor qui si sente un’eco dell’ode del Parini la Musica o l’Evirazione) si amplia nel quadro notturno dei cimiteri comuni: un momento chiaramente inferiore in cui una volontà polemica supera la misura della poesia e si serve di abili risorse letterarie per un effetto di orrore, di emozione, di sdegno. L’eloquenza che vuol commuovere e persuadere prevale qui nettamente e insieme prevale, sulla base di una interpretazione errata di un episodio pariniano (Notte, vv. 1-29), una volontà di polemica antiromantica, di gara con gli imitatori della letteratura nordica di dimostrazione delle possibilità di effetti lugubri nella piena fedeltà ad una tradizione classica ed italiana. (E si noti in proposito che proprio nei pezzi di gusto piú esteriormente romantico il Foscolo calca la mano quanto piú si allontana da possibili esemplari stranieri e quanto piú utilizza vistosamente esempi ed echi di poesie classiche ed italiane).

Particolari esasperati, onomatopee abilissime, ma insistenti e retoriche (questi brani piacquero immensamente per la loro «armonia imitativa» a commentatori dell’ultimo Ottocento – Trevisan, Canello, ecc. come ad essi piacevano le parti piú eloquenti e sonanti), linguaggio cosí sforzato e lontano dalla energia misurata e dall’eleganza di altri momenti (e qui invece il «raspar», lo «svolazzar» che non riescono a farsi mediare nella classica sceltezza che pure qui è ricercata) caratterizzano il quadro della fossa comune come brano di bravura letteraria (e di dubbio gusto), di efficacia, ma non di poesia, come movimento calcolato nel generale chiaroscuro a forti contrasti, ma non internamente giustificabile. E la ripresa pariniana avveniva in tal caso in una disposizione errata anche criticamente. Infatti il brano introduttivo della Notte (da cui il Foscolo riprese mosse e parole: «e upupe e gufi e mostri avversi al sole / svolazzavan per essa... i cani rispondevano ululando...») aveva una funzione di colore grottesco ed ironico e le sue accentuazioni di colori cupi, di parole forti, nascevano anche da un bisogno di sottile parodia in cui il raffinato stilista mescolava echi di grandiosità notturna e caricati effetti ironici per un generale fine di ironico contrasto con la notte moderna del giovin signore, e il Foscolo errò anche quando nel «Gazzettino del bel mondo» presentò il brano come prova delle possibilità «romantiche» di artisti che si erano rifiutati totalmente ad ogni influenza del preromanticismo straniero. L’errore critico si tramutava qui in errore poetico ed è inutile tirare in ballo i notturni di Chopin come fa il Citanna o cercare altre giustificazioni: questo movimento, naturalmente valido nel generale sviluppo del carme, è però, nel suo risultato, scadente, uno degli effetti della eloquenza che prevale sulla poesia e nella polemica e negli sdegni cerca e provoca efficacia non vera rappresentazione poetica.

Il finale del tempo ci riporta all’altezza del primo movimento ed anzi solleva tutto il tempo in una esclamazione lirica di particolare intensità:

Ahi! sugli estinti

non sorge fiore ove non sia d’umane

lodi onorato e d’amoroso pianto.

Conclusione lirica di quanto l’inizio del tempo aveva proposto piú debolmente: «fuor dei guardi pietosi». Le «umane lodi» e l’«amoroso pianto» ricollegano il secondo con il primo tempo e insieme introducono il terzo come il Parini, «amico» e «grande» consigliere di «liberal carme», legava la fase della «corrispondenza di amorosi sensi» a quella delle tombe testimonianza di civiltà e capaci di eccitare «a egregie cose», e come il giardino di Porta Orientale vagheggiato come ideale cimitero del Parini precisa le condizioni della tomba consolata e preannuncia i cimiteri-giardini degli antichi e degli inglesi.

Il terzo tempo (vv. 91-150), grandioso e ricco di movimenti, sviluppa in una generale intonazione solenne e maestosa il tema della religione dei sepolcri nel loro valore civile, nel loro legame con le origini stesse della civiltà nel suo distacco dall’epoca ferina. Sulla base sensibile del finale del tempo precedente che aveva preparato, e non solo logicamente, il nuovo valore delle tombe, il nuovo tempo si apre con decisione solenne, quasi con voce di organo, con voce di verità profonde e generali in uno sfondo grandioso di tempi remoti e preistorici (ed .uno degli incanti poetici dei Sepolcri è questo passare di luoghi e di tempi, mai casuale e disordinato, e in questo “tempo” il ritmo dei secoli che passano risalendo dalla preistoria all’epoca contemporanea attraverso una continuità di tradizione è segnato in maniera chiara e con intenso effetto poetico). E sacri oracolari e storici sono soprattutto i primi versi (vv. 91-96) in cui, sulla base della grande interpretazione vichiana (qui si può ricordare la frase di Giuseppe Manacorda: «Vico che canta e non sillogizza»!)[29], con la nascita del «pudore» e della «compassione» (principi essenziali di civiltà, come il Foscolo precisa nella Orazione sull’origine e sui limiti della giustizia) si sviluppa la severa visione della civiltà primitiva sempre di fronte alla severa visione di una immutabile struttura della realtà in cui la Natura «destina» i cadaveri ad altra vita organica. Proprio mentre ribadisce la sua concezione materialistica con versi che hanno la stessa solennità sacra di quelli che cantano l’inizio della civiltà (solennità fatale e storica adeguata dal passo, dal suono, dal linguaggio assertivo), il Foscolo enuncia la parola essenziale «religione» e traduce poeticamente il valore civile delle tombe nel ritmo solenne e scandito («tradussero per lungo ordine di anni») con cui una tradizione secolare ed uguale pur nella diversità dei riti si perpetua nelle civiltà classiche accomunate dalla loro visione sacra e serena dei legami fra vita e morte (vv. 97-103).

Ma in questa continuità di religione delle tombe si produce una frattura: quella rappresentata dall’uso cristiano medievale e moderno della sepoltura nelle chiese che, mentre permette al Foscolo l’accettazione cosí di una parte delle esigenze rappresentate dai provvedimenti francesi, corrisponde piú intimamente alla polemica piú profonda contro una concezione della vita e della morte che il Foscolo non accettava e riteneva depressiva e mortificante (si ricordino anche gli accenni alla religione cristiana e alle sue possibilità poetiche nel Commento alla Chioma di Berenice), contro un presunto avvilimento dei valori umani a favore di una mitica speranza oltremondana e di una visione macabra della vita e della morte. Tale frattura nella continuità di una tradizione di onore alle tombe legata ad una visione serena e virile della morte, senza orrore macabro, si traduce in una frattura nella stessa continuità del tempo e improvvisamente si svolge un movimento (vv. 104-114) pieno di effetti cupi, di immagini di orrore, di brusche cesure rappresentanti sobbalzi di incubo, di parole forti e calcate («il lezzo... contaminò», «balzan... esterefatte», ecc.).

Anche in questo quadro fosco con la utilizzazione di spunti di polemica giornalistica (l’articolo citato del Lambertenghi) con l’autorizzazione classica del citato passo di Apollonio Rodio[30], il Foscolo ha ceduto alla componente meno limpida della sua ispirazione, ha voluto presentare un quadro di effetto, colpire e spingere il lettore ad una commozione non solo poetica, ad una presa di posizione polemica (e si noti lo stesso cenno di effetti sensuosi insoliti nella poesia foscoliana, come quello della nauseante impressione olfattiva di «lezzo» mescolato ad incenso), e insieme ha voluto creare un chiaroscuro eccessivo nel contrasto fra questo quadro e la scena di serenità classica che segue (vv. 114-129) e in cui i toni intimi e pacati dei primi due tempi tornano piú rasserenati e luminosi. Sulla base cupa di quel quadro (e si verifica qui il procedimento foscoliano nei Sepolcri nel suo salire a condizioni sempre piú alte e pure attraverso impeti di eloquenza e contrasti drammatici) riappare il motivo del paesaggio consolatore e rasserenatore, piú libero (dopo i due quadri lugubri) da pericoli di suggestioni macabre, capace di presentarsi centrale e dominante dopo le sue apparizioni frammentarie e applicate ad altri motivi (l’«arbore amica», il tiglio del Parini).

Dal chiuso dei templi tenebrosi, contaminati di immagini macabre e di odori spiacevoli, oppressi da sogni angosciosi in cui quel culto macabro si riflette accresciuto e pare chiudere tutta la vita nei suoi aspetti piú vitali (giovani madri e lattanti) in proporzioni di incubo, si passa con impressione di sollievo a questa scena in piena aria, in questo paesaggio percorso da acque limpide, odoroso di «puri effluvi» di piante e di fiori, colorito di un verde perenne e vitale, illuminato dal sole che vi crea un centro potente di immagini e sentimenti intorno all’essenziale simbolo della luce-vita che richiama – per disperdere definitivamente l’orrore, non il sospiro della malinconia – la scena della morte in cui l’uomo – ogni uomo – rivolge «l’ultimo sospiro alla fuggente luce». E si noti come questa immagine centrale (suggerita dall’Elegia del Gray, massimo documento poetico della poesia sepolcrale settecentesca) solleva tutto il movimento che potrebbe avere qualcosa di troppo prezioso e carezzato (indicato da alcuni particolari: «i preziosi vasi», «amaranti educavano e viole») se non trovasse un centro cosí alto e sensibile, se in quella serenità di Eliso, in cui i viventi nelle «soavi cure» dimenticano quasi i morti per essere tutti presi da quell’aura celeste, non ci fosse, legato ad un particolare di questo rito sepolcrale (le luci poste dagli antichi nei sepolcri), il bellissimo incontro di luce e «sotterranea notte» e quel movimento patetico e limpido che sensibilizza tutto l’episodio correggendo dall’interno il suo pericolo di un eccesso di dolcezza, di estasi preziosa.

E da quel centro animatore che congiunge morte e vita nel punto tragico del trapasso riscattandolo in questo accordo essenziale di «sospiro ultimo» e di «luce fuggente»

(perché gli occhi dell’uom cercan morendo

il Sole; e tutti l’ultimo sospiro

mandano i petti alla fuggente luce),

di sguardo rivolto al sole, tutto il movimento acquista una intensità maggiore di vitalità consolatrice, di compenso di affetti e di cose intorno alla tomba.

Una sottile animazione affettuosa muove il paesaggio vegetale che consola le tombe impregnando l’aria di «puri» effluvi, protendendo il suo verde «perenne» (secondo la spiegazione del Silva e con la aggiunta della «memoria perenne»), mentre le acque lustrali, «purificatrici», fanno crescere (ma «educare» è piú raffinato e piú affettuosamente attivo, piú trasposto nelle «soavi cure» che qui sono realizzate dagli umani attraverso una specie di collaborazione della natura) amaranti e viole e gli uomini (gli «amici»: l’amicizia è il legame affettivo sentito come tipico degli antichi) aggiungono i vasi lacrimari (in realtà vasi per unguenti e profumi: l’errore settecentesco è però caratteristico della accentuazione preromantica dei cimiteri classici), le faci illuminatrici, sí che in questa illusione di vita nella morte i visitatori seduti presso le tombe sentono un profumo di aura celeste, paradisiaca.

Tutto è rasserenato e certamente questo movimento (in cui la solennità iniziale si fa affettuosa e malinconicamente serena) indica una delle punte piú sicure (pur con qualcosa di prezioso e di sottile che troverà espressione piú sicura nelle Grazie) ed una delle direzioni del Carme: la tensione piú intima vita-morte ha qui raggiunto un limite massimo nel suo senso di luminosità e di beata serenità.

Il cimitero-giardino degli antichi si continua nel cimitero-giardino degli inglesi moderni, ma lo schema discorsivo implicito nel riferimento al Silva è veramente superato e la continuità è di ordine tutto poetico, senza cesura e connessa sutura artificiosa. La «pietosa insania» è insieme necessaria conclusione al tema dei cimiteri classici ed è naturale e patetica apertura al tema dei giardini inglesi che entra nel Carme non per semplice completezza discorsiva, ma ricco di poesia, nell’ondeggiamento fra antico e moderno, nell’arricchimento di tempi e di spazi per cui dalla tomba solitaria si passa al cimitero comune, alle chiese cristiane con la loro aura medievale, al giardino dei classici e degli inglesi e dai tempi antichi si ritorna ai tempi moderni, dal «mirabile» del giardino classico si ritorna al «passionato» dei tempi moderni con il suo impeto crescente di entusiasmo lirico ed eloquente, con la sua vitalità ed i suoi pericoli inevitabili.

Non direi che il breve movimento dei giardini inglesi sia “poesia minore”. Certo questo movimento tende a sciogliersi rapidamente in un altro, ma è appunto qui un esempio della poesia dei Sepolcri che non si deve ridurre ad isolate liriche fiorite entro un nesso puramente o prevalentemente non poetico. Il movimento dei «suburbani avelli» è intenso e tutt’altro che prosastico, anche se raccorciato e rapido nel suo trascolorare da una direzione patetica familiare («dove le conduce amore / della perduta madre») ad un improvviso ritmo eroico, di marcia funebre per la morte di un eroe:

ove clementi

pregaro i Geni del ritorno al prode

che tronca fe’ la trïonfata nave

del maggior pino e si scavò la bara.

La condensazione di movimenti, cosí tipica dei Sepolcri che nei passaggi sembrano sintetizzare proprio delle possibili pause distensive e connettive, ha qui raggiunto il suo massimo in uno sviluppo raccorciato, addensato, folto sino al v. 150. Lo squillare improvviso del motivo eroico (con la ricchezza di riferimenti alla storia contemporanea piú adatta al «liberal carme»: la battaglia di Trafalgar, avvenuta il 20 ottobre del 1805, aveva segnato l’irreparabile condanna di Napoleone con la fine del suo sogno di invasione dell’Inghilterra) dal seno di una scena patetica e familiare movimenta tutto questo finale con il suo ritmo battuto e diviso fortemente al centro del verso (che tronca fe’ / la trïonfata nave del maggior pino, / e si scavò la bara) bellicoso e solenne, cosí adatto a tradurre dalla cronaca alla poesia il particolare suggestivo, eroico e “sepolcrale” di Nelson che aveva fatto tagliare l’albero maestro della nave ammiraglia francese Orient (Abukir, 10 agosto 1798) per prepararcisi la bara in cui era stato posto dopo la morte gloriosa nella battaglia di Trafalgar.

Il movimento eroico risoluto e perentorio è subito seguito da un movimento piú impetuoso che intimo in cui ha rilievo poetico, piú che la satira e la mossa impetuosa ed eloquente, la finale prosopopea del poeta cantore di «liberal carme»: quel «liberal carme» che viene ad esplicarsi nella sua linea piú evidente, nella sua destinazione piú pratica, nell’episodio successivo delle tombe di S. Croce. Ma se il passaggio poetico piú diretto va da Nelson (primo esempio di eroe morto per la patria) alle tombe di S. Croce, attraverso il sepolcro ideale del poeta del «liberal carme»,il Foscolo media tale passaggio con un movimento di satira contemporanea che doveva servire a chiarire meglio il valore delle tombe dei grandi che richiede un adeguato animo dei viventi, e che permetteva un arricchimento del «passionato» contemporaneo in un esplicito e coraggioso riferimento alla storia italiana. Già nell’episodio del Parini la polemica si era svolta contro Milano «lasciva d’evirati cantori, allettatrice», ed ora si allarga con maggiore importanza politica a tutto il nuovo regno italico di recente istituzione (31 marzo 1805) nella sua classe dirigente incapace e servile.

Tono di satira e tono solenne e impetuoso si mescolano in un movimento complesso ed efficace (vv. 137-145) in cui una lentezza maestosa (quella dell’inizio del tempo legata alla solenne storia vichiana: e qui è ancor Vico che porta l’immagine dell’Orco «padre della notte civile, della notte dei nomi», «che divora gli uomini dalla vita bestiale») ed una certa enfasi volutamente ampollosa («già il dotto, il ricco ed il patrizio volgo / decoro e mente al bello italo regno») uniscono l’eco della solennità iniziale ripresa alla conclusione del tempo ad un suo uso satirico ed ironico nei riguardi della vuota grandiosità di quella classe dirigente e delle sue inutili tombe pompose: tombe senza esempio, tombe veramente macabre e senza “auspicio” («inaugurate»), tombe di uomini mossi da «opulenza» e «tremore», non da «furor d’inclite geste», e quindi prive di una vita ulteriore allo stesso modo che l’uomo senza affetti non partecipava alla «celeste corrispondenza d’amorosi sensi». A questo mondo basso e destinato all’«Orco dei nomi», un ultimo movimento contrappone l’ideale sepolcro del poeta e la sua eredità di caldi sensi e l’esempio di «liberal carme».

A questo tempo culminato in movimenti brevi e incalzanti, con ripetizioni («già il dotto», «già vivo»), con chiuse staccate e decise («e si scavò la bara», «e i stemmi unica laude»), con posizioni forti e perentorie («A noi»), segue una breve pausa, su cui si apre poi il tempo eroico e patriottico, anticipato dal breve movimento eroico di Nelson, e sul motivo ironico-polemico del «bello italo regno» e la proposta del «liberal carme».

È il tempo piú impetuoso e complesso e, nei suoi limiti di eloquenza, produce un indubbio effetto di eccitata e densa grandiosità entro cui, come in un movimento ricco ed irresistibile, passano rapide e pur precise mobili scene di paesaggio terrestre e celeste, evocazioni sensibili di personaggi e di vicende fino all’urto piú esplicito di una volontà profetica («quindi trarrem gli auspici») e all’ultimo quadro piú grandioso e staccato della vita romantica dell’Alfieri patriota e santo di questa nuova religione risorgimentale.

Il tempo nasce sulla premessa generale cosí precisa e intensa dei primi versi, nell’appoggio al nome del Pindemonte a cui il poeta si rivolge, quasi a sottolineare l’importanza eccezionale del tema, il punto per lui piú nuovo ed originale del carme[31].

L’impeto già affiorato al v. 137 («il furor d’inclite geste»), il riferimento ad un mondo eroico di individui d’eccezione («la lirica canta le lodi degli dei e degli eroi») secondo il pensiero foscoliano-alfieriano (e in proposito si ripensi al libro alfieriano Del principe e delle lettere dove si parla degli scrittori, dei martiri ed eroi, accomunati dall’eroico impulso naturale), si precisa nella proposta del tema:

a egregie cose il forte animo accendono

l’urne dei forti...

Il motivo stesso della poesia suggerisce la tensione eccitante del tempo: la poesia nel suo accento lirico-eloquente esprimerà la comunicazione eccezionale delle urne dei «forti» nell’animo «forte». Tra questi «forti» è lo stesso poeta, sempre legato personalmente allo svolgimento del carme, nei suoi temi piú intensi: prima la sconsolata costatazione della conclusione della vita individuale si era individuata fortemente in lui («a me», «per me»), ora la contrapposizione tra «forti» e «volgo» trova l’appoggio sull’«A noi» del v. 145 e sull’«io» del v. 154 che trasforma in inno tanto piú fervido e tanto piú eloquente e partecipato l’invocazione-evocazione di Firenze, delle sue tombe, del suo paesaggio.

Appoggiato a quel saldo tema e all’individuata posizione personale di un «forte» poeta di «liberal carme», si snoda impetuoso il lungo movimento che rispecchia un procedimento già adottato nei sonetti maggiori e nel sonetto A Firenze, quel tipo di invocazione-evocazione che qui riesce – anche se con la collaborazione esplicita dell’eloquenza – a reggere sino in fondo con un respiro lungo, appoggiato sulle numerose relative e consecutive piú energiche, ma anche piú enfatiche di quelle di A Zacinto. Ma si avverta che l’impeto del lunghissimo periodo è tutt’altro che incalcolato e immediato: il Foscolo non solo riprendeva un procedimento a lui caro portandolo alla sua prova estrema e servendosi di un piú vasto aiuto dell’eloquenza, ma aveva di fronte un preciso schema letterario mirabilmente utilizzato e trasformato, quello dell’elogio lucreziano di Empedocle in cui la Sicilia è lodata per la sua bellezza, ma soprattutto per aver dato i natali al filosofo. E l’impeto è, nel suo aspetto di inevitabile colata lavica, fortemente costruito nelle sue parti essenziali, nei suoi appoggi di grido piú elevato («io quando vidi... te beata gridai... ma piú beata... Che ove»).

Prima undici versi (145-164) senza pausa poi, sull’impeto dell’esclamativo invocativo a Firenze, altri quindici versi (165-179) continuati in due ultimi movimenti di sei e di tre versi fino al 188. Un tempo complesso e incalzante che occupa la fantasia del lettore con la folla delle immagini splendide, delle evocazioni grandiose, con un aprirsi di prospettive che dalla chiesa di S. Croce ci portano di fronte all’aerea cupola michelangiolesca, di fronte ad un ciclo sempre piú vasto, al paesaggio delle colline fiorentine, per riportarci poi nel tempio fantasticamente allargato a contenere tutte le glorie italiane. Diciamo pure: persin troppe “ferme”, troppe caratterizzazioni, ed è perciò che appare tanto piú sicuro il successivo quadro dell’Alfieri, errante su di uno scenario solitario ed assoluto.

Nel generale impeto, nelle linee salde e mobili, nell’azione e nel crescendo che muove con sé quadri di paesaggio e presentazione di personaggi, con punte vistose e dentro un linguaggio quanto mai energico ed attivo (sí che anche il limpido paesaggio fiorentino è sentito in movimento, in tensione, fra l’Appennino che «versa» i lavacri alla Luna che «veste» di luce i colli, alle convalli che «mandano» incensi al cielo), il primo movimento, seguente ai versi di proposta del tema, sale attraverso le rapide e pregnanti presentazioni dei tre grandi (Machiavelli, Michelangelo e Galileo) disposte non casualmente, ma con un sicuro ampliarsi di scena e come un progredire dalla terra verso il cielo (e il cielo è la costante meta di tensione in questo tempo, il simbolo di una aspirazione e di una insoddisfazione). Nel secondo movimento (vv. 165-179) dall’invocazione a Firenze, nel verso enfatico e carico di espressioni di elogio («beata», «felici»), di espressioni di pienezza vitale («aure pregne di vita»), si svolge l’evocazione del paesaggio fiorentino che vive nel generale impeto (che si riflette nell’intensità notata dei verbi, vitalità estrema della scena dei colli festanti) in una contemplazione intimamente esaltata e pur capace di nitidezza nel paesaggio limpido e lunare che traduce questa “letizia” vitale che anima tutto, questa contenuta ebbrezza (non piú la composta «armonia del giorno», ma un sentimento piú vivo ed acceso) che sfocia nell’offerta dei «mille di fiori incensi».

Segue una seconda parte, il cui ritmo è sottolineato dalla ripetizione invocativa («E tu... e tu») quasi in parentesi anch’esse trasportate dall’impeto generale, e quasi minori invocazioni-evocazioni che arricchiscono di motivi e di rapidi quadri il fluire di tutto l’ampio movimento: le caratterizzazioni della poesia corrucciata e magnanima di Dante e della poesia soave e disacerbata del Petrarca (ed anche qui un processo di elevazione verso il cielo). Poi il movimento trova il suo culmine e la sua espressione piú eloquente nell’esaltazione di S. Croce e nel profetico augurio di un risorgimento della nazione italiana. Qui mosse brusche, rilievi intensi, incisi energici («e patria, e tranne la memoria, tutto»), riprese eloquenti («Che ove...») e al culmine estremo un’espressione tesa e volitiva, profetica: «Quindi trarrem gli auspici».

L’altissima e vitale eloquenza intimamente mista alla poesia in un unico impeto lirico-eloquente ha qui raggiunto la sua massima tensione e mostrato chiaramente la sua presenza piú diretta e piena. Dopo l’impeto si attenua e nelle sue ultime ondate, nei suoi sussulti piú smorzati, la poesia si afferma con piú sicurezza nel movimento bellissimo (vv. 188-197) in cui la figura dell’Alfieri (il poeta maestro di «liberal carme» la cui presenza era già sottintesa nel movimento precedente e in tutto il tempo nelle espressioni profetiche patriottiche che richiamano tante espressioni del Principe e delle lettere o del Misogallo: «Giorno verrà...») viene evocata in un coerentissimo legame con il motivo patriottico, con Firenze, con i ricordi vivi del Foscolo («cosí io scrittore vidi Vittorio Alfieri negli ultimi anni della sua vita», annota lo stesso Foscolo). Il paesaggio si fa piú assoluto ed essenziale («ove l’Arno è piú deserto»), la figura del poeta pur nella sua destinazione di esempio di religione patriottica («e l’ossa fremono amor di patria») vive tutta poeticamente, alta figura di una passione insoddisfatta, di un’ansia in realtà piú profonda della semplice scontentezza politica e patriottica (l’ansia che ben capí il Foscolo – Opere, XI, p. 236 – quando lo ritrasse meditabondo e crucciato, tormentato da «ira e malinconia») e che in questa ha la sua manifestazione piú evidente e comprensibile.

Movimento essenziale in cui l’ispiratore del tempo eroico è richiamato in parte con parole sue caratteristiche (come prima era avvenuto per il Parini), in parte attraverso l’alta mediazione omerica: di quell’Omero che il Foscolo sentirà sempre piú prima delle Grazie come «contravveleno» alla sua oscurità per volontà di sintesi, al suo “pindarismo” che proprio qui aveva fatto le sue prove estreme.

L’Alfieri di questo episodio è Alfieri, con l’appoggio di un ricordo del poeta e dei versi delle liriche (quelle da cui il Foscolo trae il senso della solitudine volontaria: «Sol nei deserti tacciono i miei guai», «Solo tra i mesti miei pensieri in riva» o il «pallore» dell’autoritratto: «pallido in volto come un re sul trono»), ma è anche Bellerofonte (Iliade, VI) che caduto «a’ numi tutti in ira»

... per l’Alea campagna errava muto,

le umane orme aborria, l’umana voce

e del suo cuore ei si pascea deserto,

come tradusse il Foscolo (Opere, IX, p. 461) risentendo naturalmente lo stimolo del celebre verso petrarchesco («Solo e pensoso i piú deserti campi») e forse anche di una traduzione dello Zachariae

(Chi non ravvisa

nel pallor della morte ancor feroce

l’anima grande dell’Egizia donna?).

Ma qui, a differenza di altri passi in cui il suggerimento letterario si fa sentire e appesantisce lo sforzo di classicizzare movimenti cupi e romantici, questa complessa genesi letteraria è superata dalla forza poetica che ci presenta un Alfieri interpretato romanticamente ed espresso in un movimento di sentimenti e di gesti veramente originale e veramente coerente all’anima piú profonda dei Sepolcri nel migliore accordo fra la nuova religione della patria e il culto piú generale della grandezza eroica, delle illusioni eroiche che compensano la tragica situazione umana nella maniera piú intensa e piú consona all’aspirazione alfieriana di «forte sentire», di vivere in condizione di tensione.

Ma il tempo delle tombe eroiche ha bisogno ancora di un movimento di passaggio verso il grande tempo successivo, a cui conduce appunto il «mirabile» greco della rievocazione della battaglia di Maratona che conferma, in maniera universale e con il valore dell’esemplarità greca, il valore delle tombe degli eroi e permette l’introduzione (per nulla stridente se non da un punto di vista di “unità di luogo e di tempo”!) nella zona di alti miti in cui la poesia dei Sepolcri si svolge in una altezza di tono superiore per costanza e purezza.

Il passaggio dei vv. 197-199 non ha nulla di ragionativo e veramente pare un eccesso di scrupolo (giustificato dai pericoli notati che hanno reso diffidente il lettore moderno) l’osservazione del Fubini e del Momigliano che insistono sulla «freddezza» dell’«Ah sí», «manifesto espediente per collegare tra loro i due episodi» (A. Momigliano, Antologia della letteratura italiana, III, e M. Fubini, Foscolo, Torino 1928, p. 249). L’importante non è quell’esclamazione di meditazione e di autoesaltazione religiosa subito superata da versi che cantano e che aprono improvvisamente e poeticamente questa visione grandiosa di tempi lontani e famosi su di un primo movimento intenso e omogeneo al “tempo eroico”:

e nutria contro a’ Persi in Maratona

ove Atene sacrò tombe ai suoi prodi,

la virtú greca e l’ira.

E il tempo eroico che ha tanto parlato di «prodi», ma ha soprattutto indicato dei grandi poeti o scienziati o pensatori, realizza ora all’ultimo, e in questa zona di leggenda che continuerà piú pura ed assoluta nell’ultimo tempo, un movimento guerresco culminante, dopo un impeto tumultuoso e lampeggiante, in una grande visione desolata e solenne di un campo di battaglia in cui si mescolano come in un quadro di tutta la vita

e pianto ed inni e delle Parche il canto.

Movimento dunque importantissimo anche se nella sua apparenza di impeto evocativo intessuto sapientemente di spunti letterari molteplici come avviene particolarmente in questi episodi di volontario romanticismo “classico”[32]. Ma in verità, se pur si avverte un clangore eccessivo e un’esasperazione di colori scuri, bruniti, secondo il gusto di effetto e di «armonia imitativa» (che tanto deliziò i vecchi commentatori come il Canello), nella straordinaria abilità di gradazioni e di contrasti (prima la calma di una navigazione notturna, poi l’imperioso accendersi di bagliori, il risuonare del tumulto guerresco e infine l’alto suono del grande verso finale in cui il canto delle Parche, il pianto e gli inni si confondono in una impressione vasta e sacra) non si può negare un generale risultato fantastico rilevato appunto dal verso finale in cui il sacro, il fatale di una religione «mirabile» e per il Foscolo eterna prevalgono e sollevano in una zona religiosa e assoluta i singoli effetti precedenti.

Il tempo eroico è concluso: dalla Firenze affascinante di colori, di vita, di ricordi grandiosi, intorno alle tombe dei grandi siamo passati nella notte maestosa del mare greco, dal mondo contemporaneo con le sue tinte di «passionato» e con i suoi riferimenti storici siamo passati nel mondo antico dove si svolgerà tutto l’ultimo tempo (vv. 213-295) a cui fa da lunga introduzione fino al v. 235 un primo movimento complesso e vario (e si noti come in quest’ultima parte i temi vengono proposti con piú larghezza poetica).

Pare quasi che in quest’ultimo tempo il poeta, realizzando meglio l’unione del «passionato» e del «mirabile» e dopo lo sfogo piú eloquente del tempo delle tombe di S. Croce, entri in un nuovo mondo piú libero, in cui i motivi piú alti e profondi già vivi nelle prime parti rivivono in proporzioni piú pure. E certamente la costatazione dei moderni sulla superiorità di quest’ultima parte è un acquisto essenziale ed innegabile, ed anzi spiegabile proprio dal nostro punto di vista nella maggiore fusione degli elementi poetici e ideali del Foscolo e nello sfogo assunto dall’elemento di eloquenza che urgeva nelle prime parti del carme: ora la fantasia è piú libera e pura, e d’altra parte non sarebbe cosí se non fosse passata per gli altri tempi sino allo scoppio di entusiasmo del tempo precedente. Ma non si dica perciò con il Citanna che il carme è divisibile in due parti, una prima non fusa, incerta, contrastante e una seconda riuscita. Il Foscolo giunge a questo momento piú alto attraverso momenti che hanno pure la loro poesia, in cui circola l’afflato poetico notato in tutti i Sepolcri, la cui conoscenza è essenziale a questo tempo piú puro e costante e la diminuzione di eloquenza non implica che nelle prime parti il prevalere di toni diversi corrispondesse ad incertezza poetica o ad urto fra il motivo illuministico e quello romantico.

Era nell’«entusiasmo lirico» l’equivoco possibile. Ora che quell’entusiasmo ha sfogato la sua punta piú volitiva e il passionato si media piú liberamente nel mirabile lontano e universale, la poesia scorre piú limpida e costante. Il legame piú intenso fra i due tempi è da vedersi nella vicinanza ideale dell’ultimo verso 212 e il gruppo di versi 228-234, in cui la poesia dei sepolcri degli eroi mantiene il suo carattere sacro e la suggestione del campo di Maratona continua in quella delle rovine (anche a Maratona non vi sono che rovine di sepolcri) e dei deserti della Troade inseminata. I versi precedenti sono soprattutto una pausa di respiro prima di entrare definitivamente nel mondo mitico greco (quasi in una replica del viaggio presso l’Eubea e della fantastica voce dei sepolcri individuata in quella di Ajace) e d’altra parte aggiungono nella suggestione del paesaggio marino cosí caro al Foscolo un nesso essenziale in questa vicenda di infelicità e di illusioni salvatrici che rinforza il valore della poesia eternatrice e giustiziera.

Ajace è l’anticipazione piú drammatica di Ettore e l’opera vendicatrice delle onde che portano le armi di Achille sulla sua tomba di generoso suicida è l’anticipazione piú vistosa dell’opera della poesia dei sepolcri (la poesia è per Foscolo sempre poesia dei sepolcri, è sempre la poesia delle cose belle e periture, della vita esaltata nella morte) che si svolge nel pieno dell’ultimo tempo.

E Ajace è anche in qualche modo un ritratto alto del poeta nella sua prefigurazione di esule perseguitato dalla fortuna e dagli Ulissi astuti, del poeta che si presenta piú che come eloquente polemista come evocatore di morti eroi.

Evocare è la grande parola romantica[33] che si unisce a quella di ristoro e consolazione: la poesia evocando è l’illusione-valore supremo, per lei vale la parola «eterno» e la contrapposizione al «silenzio di mille secoli», anche se tale eternità è una stessa illusione e durerà finché contemporaneamente dureranno le «sciagure umane»[34].

L’ansia di valori infiniti, l’ansia di immortalità, di vitalità trova qui il suo punto piú alto, la vita sembra qui vincere duraturamente la morte, ma non si dimentichi mai che questo impeto generoso che supera gli affetti privati e la stessa storia civile riceve tanto piú vigore di suggestione perché il limite della caducità non è ignorato e, se il pensiero è mortale (dei mortali e mortale), anche la fantasia nella sua dimensione particolare è pur legata ad una vita limitata dell’umanità, e al peso delle sue sciagure.

Non dunque un inno inebriante ed enfatico, ma l’inno di un’eternità come particolare dimensione della vita, resa piú alta ed intensa dalla coscienza dei suoi limiti.

Il gruppo di versi 230-234 e il grande verso 235, che accorda in un ritmo vasto e in una immagine solenne e desolata il movimento successivo, rappresentano uno dei momenti piú profondi della poesia foscoliana e la grandiosità magnifica di una eloquenza cosí alta si è trasformata in grande poesia. L’«armonia del giorno», la «mesta armonia» sono diventate grandiosa armonia, al posto della «donna che innamorata preghi» sono sedute le Muse, il fremito delle tombe di S. Croce è diventato un alito universale di poesia che compensa la morte e supera il silenzio dei secoli[35] e l’opera distruttrice del tempo: mito vastissimo, universale e totalmente poetico di un senso cosí grandioso, cosí vitale e cosí desolato. Spazio e tempo in dimensioni vastissime, per una scena smisurata, in cui la poesia delle rovine ha perso ogni carattere pittoresco, e su questa la voce della poesia che fa «lieti i deserti» (ancora un incontro di termini di vitalità e di desolazione, ancora un chiaroscuro potente ed assoluto).

Il motivo piú profondo dei Sepolcri (senso di caducità e ansia di vita superiore e compensatrice delle sventure umane) si esprime qui, come poi nel grande finale, come voce di tutta l’umanità eroica e sfortunata carica di dolori e di generose, vitali illusioni, in un mito purissimo e grandioso, in una musica sacra che supera ogni carattere volitivo e persuasivo, come ogni semplice intonazione patetica ed elegiaca.

Il tempo dell’«armonia» si sviluppa poi su questa base altissima in due movimenti fondamentali: quello delle tombe troiane e dell’orazione di Elettra, quello del «lamento amoroso» di Cassandra e della sua profezia valida per tutta la storia umana.

Aperto dal grandioso verso 235, nel solito accostamento poetico del desolato «inseminata» e dell’«eterno splende» (dimensione essenziale, nei suoi vari gradi, per tutti i Sepolcri), il nuovo movimento (vv. 235-253) è caratterizzato da uno straordinario impasto di solennità storico-mistica e di soavità affettuosa con tenui sfumature elegiache assicurate saldamente intorno al tono essenziale. La tomba di Elettra è piú isolata e splendente di quelle di S. Croce o di Maratona. Uno spazio ed un tempo la isolano e insieme la congiungono suggestivamente a noi: lo spazio percorso dai «peregrini», il tempo incatenato nel ritmo solenne e naturale della discendenza fino al regno della giulia gente

(ed a Giove diè Dardano figlio

onde fur Troia e Assaraco e i cinquanta

talami e il regno della giulia gente).

Il mito, il «mirabile» della religione omerica che permette l’unione del divino e dell’umano e che secondo il Commento permette di magnificare le passioni «divinizzando gli uomini e umanizzando gli dei», agisce qui in perfetta coerenza con questo tono alto, ma senza enfasi, di naturale elevatezza sí che «le vitali aure del giorno» e i «cori dell’Eliso» sono facilmente avvicinati e la relazione della mortale Elettra e dell’immortale Giove si traduce agevolmente in un tono di affetto, in una mestizia rasserenata in cui la «mesta armonia» dell’inizio, l’affettuoso tono del secondo tempo, ritornano in un grado diverso e piú alto, con un fascino meno sentimentale e patetico, un’uguale coerenza e un piú alto livello come di un tono acquistato attraverso un’esperienza piú piena e un impegno piú arduo. Questa preghiera affettuosa, mesta e sicura nasce dopo impeti e in una posizione conquistata attraverso una faticosa salita.

Là c’era una sensibilità piú viva e vicina, qui una soavità piú interiore e piú mediata, la luce, lo sguardo interiore dei grandi sonetti, la pacatezza superiore che attenua al massimo ogni possibile asprezza: una preghiera soave e una morte senza tragedia dentro la trama degli imperfetti che allontanano, prolungano indefinitivamente e attenuano il distacco reciso di un’azione compiuta. Le «dolci vigilie» per le notti d’amore, le «mie chiome e il viso» per tutta la bellezza di Elettra, «non mi assente» per un «nega» come prima il «chiamava» della Parca per indicare e attenuare la morte: forme soavi “caste”, di “nobile semplicità”, in cui il sospiro della morente («cosí orando moriva») è assorbito da quell’«orare» assoluto e senza sforzo. Ed una curva perfetta nella costruzione («E se... e non... almen... onde...») di questo canto melodioso fra il «chiamava» della Parca e il «gemea» di Giove.

Un’eco petrarchistica (Tarsia per il v. 245: «se ti fur care le mie chiome e il viso»), un’eco virgiliana («si bene quid de te merui, fuit aut tibi quicquan / dulce meum, miserere...») e una generale presenza omerica (il cenno di Giove[36]) vengono ad aiutare la espressione foscoliana in questa preghiera che è anche una voce della poesia eternatrice in un concreto esempio di “evocare” con un entusiasmo reso piú intimo e poetico dalla particolare dimensione mitica. Il movimento della tomba di Elettra è il presupposto del successivo movimento: quella tomba è pure la tomba dei principi troiani presso la quale Cassandra fa la sua profezia, quella tomba che splende nella «Troade inseminata» resa immortale in realtà non già da Giove, ma dalla poesia che quasi voce di Giove è l’effettiva «ambrosia» degli uomini, è la tomba che permette a Cassandra il suo canto, l’inizio di una tradizione di sepolcri allora presente e presente ad Omero; ma soprattutto il “movimento” di Elettra è la base necessaria del «carme amoroso» («liberal carme» e «carme amoroso» si fonderanno poi nel finale), porta questa introduzione essenziale di soavità mesta e splendente.

Il nuovo movimento (vv. 254-fine) si apre lentamente e solennemente nella ripetizione di quell’«ivi» che determina una continuità di tradizione (e questo senso di continuità affiora tante volte nei Sepolcri dopo il primo ritmo di continuità affermato nel terzo tempo):

ivi posò Erittonio e dorme il giusto

cenere di Ilo: ivi l’Iliache donne

sciogliean le chiome, indarno, ahi deprecando

de’ lor mariti l’imminente fato;

ivi Cassandra, allor che il Nume in petto

le fea parlar, di Troia il dí mortale,

venne...

La «Troade inseminata» si popola di tombe e di figure: dai deserti la poesia “evoca” storia, eroiche sventure e, nel continuo ondeggiamento fra presente e passato, da un tempo imprecisato sorge un tempo passato, sottratto all’urto piú esterno del “passionato” contemporaneo, con le sue possibilità di polemica, di sdegno, di esortazione. Nel passato e nel mito anche la profezia di Cassandra, il suo vaticinio (futuro dentro un passato), perde ogni carattere di pratica eloquenza e la sua tensione pia e profetica è tutta risolta poeticamente.

Intorno alle tombe moltiplicatesi quanta vita di figure e di motivi poetici: le donne troiane che invano (quale incanto in questo «indarno ahi» che sottolinea nel corso di un lungo periodo una di quelle dolenti costatazioni dell’impotenza umana di fronte ad una forza inesorabile e a modo suo sacra) pregano per scongiurare la sorte tragica dei loro mariti (le tombe sono diventate senz’altro altari di un’unica religione), Cassandra vaticinante e i giovinetti destinati ad una sorte di esuli. In questo paesaggio da bassorilievo, ma mosso e musicale (che richiama quello bellissimo della morte di Priamo nel II dell’Eneide), sul margine di una guerra che non fa sentire il suo rumore (che aveva risuonato nell’episodio di Maratona), il «lamento» di Cassandra si svolge armonioso e puro e insieme piú ricco e teso della precedente preghiera di Elettra sull’avvio soave degli imperfetti nell’indicazione di un’azione sacra e affettuosa:

e guidava i nepoti, e l’amoroso

apprendeva lamento ai giovinetti

e dicea sospirando...

Il lungo «carme amoroso» («liberale» e affettuoso, storico ed elegiaco) conferma i temi poetici precedenti. La pietà storica si congiunge con la pietà familiare e patria (Cassandra è profetessa e principessa troiana, figlia di Priamo e sorella di Ettore), la morte appare «giusta di gloria dispensiera» e la poesia vincitrice del silenzio e della morte.

Il «lamento» si inizia con l’accentuazione del «se» dell’orazione di Elettra, ma approfondito in una vastità di futuro incerto e doloroso, accentuato ancora dall’«invano» e dalla visione solenne delle rovine di Troia:

Le mura opra di Febo

sotto le lor reliquie fumeranno

(che risente l’eco del virgiliano: «omnis humo fumat neptunia Troia»[37]).

Poi, in questo supremo colloquio affettuoso e sacro, Cassandra si rivolge non piú ai «giovinetti», ma, sempre piú allontanandosi nel futuro, alle «palme e cipressi» e chiede a loro (come già agli alberi erano state chieste le molli ombre consolatrici, cortesia di ombra e di calma) la protezione delle tombe dei padri: fronde sacre in una religione delle tombe e del pianto di estrema purezza:

E santamente toccherà l’altare...

Un nuovo impeto interno muove quest’ultima parte e il senso sacro di tutto il carme trova nel linguaggio trepido e puro della sacerdotessa Cassandra un’adeguazione perfetta. E se la rappresentazione di Omero ch’erra sotto le «antichissime ombre» e «brancola»[38] penetrando negli avelli e abbraccia le urne (un po’ troppo risentito attraverso il cieco e patetico Ossian) può avere sfumature di eloquenza, e qualche eccesso di gesto, e se il gemito degli antri secreti dei sepolcri che comunicano al poeta la verità della storia degli eroi può avere una certa violenza patetica, la poesia si afferma altissima (preparata nel fremito mosso e profetico dei versi precedenti) nell’evocazione della vicenda di Ilio, della città mitica con la sua presenza-assenza di splendore sulle mute vie (ancora una espressione altissima dell’incontro fra vita e morte molto vicina a quella delle rovine dei grandi versi 230-235): un’aria incantata di rovine e di splendore rapidamente alternantisi di fronte ai «fatati Pelidi», anch’essi rivisti in quest’aura di mito incantato. Il poeta può diventare cosí qui veramente «il sacro vate» e la poesia può adempiere la sua missione di consolatrice e di eternatrice; placando con il canto le afflitte anime dei morti eroi, eternando il ricordo dei vincitori e, piú in alto, quello degli eroi sfortunati di cui Ettore è il rappresentante esemplare.

Il «lamento» e «carme amoroso» non ha perso il suo calore di affetto e di compianto familiare (è Cassandra che parla dei suoi e di suo fratello Ettore) ed è insieme salito al valore piú puro e universale di «liberal carme» sempre in un’aura di alto mito distaccato e solenne, in cui la profezia assume un valore tanto piú generale, a ribadire nei limiti di uno spazio («per quante / abbraccia terre il gran padre Oceano») e di un tempo («finché il Sole...») e di un sentimento («ove fia santo») il valore eternatore della poesia, il suo carattere di voce immortale di una umanità eroica e sventurata.

Il Foscolo nella lettera a Guillon sentí la grandezza di questo finale:

E la fine, la fine soprattutto, sente il languore? Questo squarcio è un vaticinio di una principessa di sangue troiano, sorella di Ettore, e sciagurata per le sventure che prevedeva. Non può dissimulare la gloria de’ distruttori della sua famiglia, ma ella cerca alcuna consolazione vaticinando per l’infelice valore d’Ettore una gloria piú modesta e piú santa; non d’un principe conquistatore, ma d’un guerriero caduto difendendo la patria. Nelle ultime parole di Cassandra: «e finché il sole / risplenderà sulle sciagure umane», l’autore s’è studiato di raccorre tutti i sentimenti d’una vergine profetessa che si rassegna alla fatale e inevitabile infelicità de’ mortali, che la compiange negli altri, perché sente tutto il dolore sulla propria, e che, prevedendola perpetua sulla terra, le assegna per termine alla fama del piú nobile e del men fortunato di tutti gli eroi.

E in realtà nei quattro versi finali, in cui il pio e affettuoso rivolgersi di Cassandra ai giovinetti e alle piante si trasforma nell’invocazione di Ettore[39], estremo termine del suo affetto e del suo vaticinio che va dalla storia troiana a tutta la storia umana, tutti i motivi piú alti del carme tornano nei loro termini essenziali e superano il valore di un episodio-esempio con la loro effettiva presenza, con la sintesi e l’enunciazione dei sentimenti piú profondi del Foscolo: il «pianto» come onore e consolazione dei viventi ai morti, il «sangue per la patria versato», «il sole» come simbolo supremo della vita, le «sciagure umane» che formano il fondo di risonanza grandioso e patetico. Da questo culmine di poesia, in cui la discussione sui sepolcri si è trasformata in inno sacro dell’eroismo sfortunato, dell’umanità infelice, ma capace di gesta generose e di una armonia eternatrice, tutta la complessa vita del carme ci appare come piú unitariamente giustificata nel suo ricco e dinamico salire ad una condizione cosí pura ed alta.


1 Il Biadego (Da libri e manoscritti, Verona 1883) credé poi di trovare la prova del sopruso non nel I canto dei Cimiteri, ma in due rifacimenti in sciolti da lui scoperti fra le carte del Pindemonte e che, secondo lui, il Foscolo avrebbe letto prima di comporre i Sepolcri. Il Pieri invece non accennò mai a questi rifacimenti piú vicini ai Sepolcri ed insiste solo sui Cimiteri limitando il «sopruso» al «furto» dell’argomento, della «novità del soggetto».

2 Nell’avvertenza alla sua Epistola il Pindemonte scrisse: «Io avea concepito un poema in quattro canti e in ottava rima sopra i Cimiteri, soggetto che mi parea nuovo, dir non potendosi che trattato l’abbia chi lo riguardò sotto un solo e particolare aspetto, o chi sotto il titolo di sepolture non fece che infilzare considerazioni morali e religiose su la fine dell’uomo. L’idea di tal poema fu in me destata dal Camposanto, ch’io vedea, non senza un certo sdegno, in Verona. Non ch’io disapprovi i campisanti generalmente: ma quello increscevami della mia Patria, perché distinzione alcuna non v’era tra fossa e fossa, perché una lapida non v’appariva, e perché non concedevasi ad uomo vivo l’entrare in esso. Compiuto quasi io avea il primo canto, quando seppi che uno scrittore d’ingegno non ordinario, Ugo Foscolo, stava per pubblicare alcuni suoi versi a me indirizzati sopra i Sepolcri. L’argomento suo che nuovo piú non pareami, cominciò allora a spiacermi; ed io abbandonai il mio lavoro. Ma leggendo la poesia a me indirizzata, sentii ridestarsi in me l’antico affetto per l’argomento e sembrandomi che spigolare si poteva ancora in tal campo, vi rientrai, e stesi alcuni versi in forma di risposta all’autor dei Sepolcri, benché pochissimo abbia io potuto giovarmi di quanto avea prima concepito e messo in carta sui Cimiteri».

3 Il motivo del cimitero comune in cui «questo corpo con quel giace indistinto, / ignoranza o saver; colpa o virtude / una sol vile tomba inghiotte e chiude... / Vergine forse a cui beltà fioriva / pura celeste per le membra intatte / nella faccia ancor lubrica e lasciva / della piú infame Taide s’abbatte. / Colui che una volgar madre nutriva / di stoltezza e viltà piú che di latte, / dorme appo il saggio illustre e il vate santo, / che mercenario mai non sciolse il canto» può avere suggerito al Foscolo l’idea dell’episodio del cimitero comune.

4 Per l’impostazione del tema cimiteriale nel secondo Settecento e nei riguardi del Foscolo si vedano almeno come essenziali:

P. Van Tieghem, Le préromantisme, II, Paris, 1948;

R. Michéa, Le plaisir des tombeaux au XVIIIe siècle, «Revue de littérature comparée», 1938;

B. Zumbini, Sulla poesia sepolcrale ecc., in Studi di letteratura italiana, Firenze, 1894;

V. Cian, Sulla storia del sentimento sepolcrale ecc., «Giornale Storico della letteratura italiana», 1892;

G. Manacorda, Studi foscoliani, Bari 1921.

5 Quella moda di cui una prova si può avere ad esempio nella recensione dei Canti melanconici di Bernardo Laviosa nel «Nuovo giornale dei letterati» di Pisa (1802, maggio, pp. 127 e ss.) in cui si parla di una seduta della Società letteraria per «onorare i sepolcri e i defunti» e che contiene d’altra parte spunti significativi anche pensando che il Foscolo non poté non leggere l’articolo di una rivista su cui, nel trimestre ultimo dello stesso anno, uscirono le sue poesie. «Chi ignora quanto i popoli civilizzati e perfino i selvaggi abbiano venerato ed onorato l’umana natura nelle sue spoglie mortali?... si è consacrata la lapide che cuopre delle ossa a noi care, perché la pietà ed il dolore possano venire a sparger lagrime sulle reliquie di un padre, di una madre, di una sposa. E pur chi ’l crederebbe? A far piú compiuto l’obbrobrio di un secolo che ha il nome di filosofico, si immagina di non porre differenza alcuna tra il cadavere di un uomo e quello di un cane...» (pp. 129-130).

6 E il Foscolo in una lettera al Giovio (Ep., I, p. 217) ne limitava il valore chiamandole «eccellenti sermoni e pieni di religione e di carità», la cui fama era stata aiutata «dal carattere delle famiglie inglesi», tutte inclinate a una malinconica devozione.

7 Donde l’amore per i giardini-cimiteri in cui «un vague panthéisme rapproche l’homme de la plante, et la religion des tombeaux, renouvelée par le sentiment de la nature, vient confluer avec la poétique des jardins» (Michéa, art. cit., p. 299).

8 Cosí da noi nella villa di Selvaggiano del Cesarotti.

9 «Aujourd’hui qu’au tombeau, je puis prêt à descendre, / mes amis, dans vos mains je dépose ma cendre. / Je ne veux point, couvert d’un funèbre linceul, / que les pontifes saints autour de mon cercueil / appelès aux accents de l’airain lent et sombre, / de leur chant lamentable accampagnent mon ombre, / et sous des murs sacrés aillent ensevelir / ma vie et ma dépouille, et tout mon souvenir. / Eh! qui peut sans horreur, à ses heures dernières, / se voir au loin périr dans des mémoires chères? / L’espoir que des amis pleureront notre sort / charme l’instant suprême et console la mort. / Vous-mêmes choisirez à mes jeunes reliques / quelque bord fréquenté des pénates rustiques, / des regards d’un beau ciel doucement animé, / des fleurs et de l’ombrage, et tout ce que j’aimai. / C’est là, près d’un eau pure, au coin d’un bois tranquille, / qu’à mes mânes éteints je demande un asyle...» (Elegia VI, Œuvres, Paris, s.d., III, p. 18).

10 «Regardez ces débris dispersés par les vents: / croyez-vous tous ces morts étrangers aux vivants? / Non: d’un tendre intérêt sources toujours fécondes, / les tombeaux sont placés aux confins des deux mondes: / rendez-vous triste et cher, oú, confondant leurs vœux, / la vie et le trépas correspondent entre eux. / Ceux que vous croyez morts, vivent dans vos hommages; / vous conservez leurs noms, vous gardez leurs images...» (Œuvres complètes, V ed., Paris 1837, p. 163).

11 «Gli alberi piantati nei siti de’ sepolcri non solamente servono a rallegrarli, ma giovano ancora a purificarne l’aria, poiché le piante diminuiscono le cattive esalazioni...» (p. 154). «Felice chi potendo edificare questi ricinti in luogo, ove scorrono acque, saprà trarne il convenevole partito, ed introdurrà dei ruscelli lustrali, che lambendo l’erba e il piede delle piante [vi educhino amaranti e viole] possono contribuire col grato loro rumore ad interrompere il silenzio del luogo» (l’espressione foscoliana degli «amaranti e viole» fu inserita nella seconda edizione).

12 C. Cessi, Due spunti ellenistici nei Carmi del Foscolo, in Studi di filologia moderna, Catania, 1910.

13 Uno studio sul linguaggio italiano, foscoliano dei Sepolcri – in parte attraverso Ortis e Chioma – nelle riprese dirette e indirette dalla tradizione, dai classici e dai testi stranieri preromantici sarebbe uno studio importantissimo insieme e per la storia della lingua letteraria e del procedimento poetico del Foscolo.

14 Il Foscolo affascinò il Croce per la sua vitalità piú vistosa, contrastante con quella – per lui – «strozzata» del Leopardi.

15 Vi è un accenno critico a Vico nella Orazione inaugurale (Opere, Ed. Naz., VII, p. 19), accusato di essere ritardato «dalla contemplazione del mondo ideale nei riguardi di una indagine sulle sorgenti della universa giurisprudenza», e tale accenno si può allargare nell’urto delle differenze foscoliane verso posizioni schiettamente filosofiche («La filosofia è vanitas vanitatum; e le nostre dottrine sono anch’esse fenomeni di fenomeni»; al Gioia, 19 maggio 1809, Epist., I, p. 272).

16 Nel Saggio dello Hobhouse si legge (Opere, XI, p. 306) circa il verso dei Sepolcri: «I patetici sentimenti progrediscono con passo lento e misurato, ma le immagini sono presentate colla vivace e nobile attitudine della gioia». Ma il chiaroscuro dei Sepolcri è in realtà presente nella costruzione stessa del carme, nel contrasto di tinte cupe e luminose di quadri foschi e sereni, e la sua originalità è in quella poetica presenza di vita e di morte, di cielo delle illusioni e di realtà della trasformazione nella materia.

17 C’era nel Foscolo in questo periodo un’estrema coscienza dei propri principi e del valore della sua persuasione: «I miei principi non posso cangiarli perché sono salito sino ad essi per una via lunga, faticosa, e senza l’aiuto degli altri, e senza pertinacia di sistema, e senza entusiasmo di singolarità. Saranno falsi, ma gli uomini mortali che sanno cogliere mai di certo e d’incontrastabile su la terra? Nascere, vivere e morire, ecco cosa sappiamo; e lo sappiamo non già per le cause, bensí per l’esperimento continuo degli effetti; ma il come e il perché di ogni cosa stanno e staranno, a quanto io credo, in eterno nella Mente imperscrutabile dell’Universo. E questa Mente io adoro senza temerla: e riposo ne’ suoi consigli senza indagarli: solo guardo gli effetti, e da quegli effetti, desumo alcuni principi e dico: “Cosí dev’essere, poiché cosí sempre fu”» (Ep., I, p. 228, 16 marzo 1809 al Gioia). Ed in relazione alla visione foscoliana della realtà e della politica, si rimanda alla lettura dell’Orazione sull’origine e i limiti della giustizia tenuta nel 1809 a Pavia alla fine della sua attività di insegnante.

18 Nell’Ortis, nella lettera da Ventimiglia, 19-20 febbraio, il Foscolo indicava nei sepolcri dei grandi la funzione “eccitatrice” che essi avrebbero dovuto avere nell’animo degli italiani. «Mentre invochiamo quelle ombre magnanime, i nostri nemici calpestano i loro sepolcri. E verrà forse giorno che noi perdendo e le sostanze e l’intelletto e la voce, saremo fatti simili agli schiavi domestici degli antichi, o trafficati come i miseri negri, e vedremo i nostri padroni schiudere le tombe, e disseppellire e disperdere al vento le ceneri di que’ grandi, per annientarne le ignude memorie; perché i nostri fasti ci sono cagione di superbia, ma non eccitamento dall’“antico letargo”».

19 Nella “lirica” il Foscolo, il Borgno e il Martignoni non ammettevano del Petrarca che le canzoni politiche.

20 Simile in tal senso quella del Borgno e quella del Martignoni. Il saggio Del bello e del sublime di I. Martignoni, Milano 1810, è un altro documento importante per la poetica dei Sepolcri e accentua bene il legame fra lirico, entusiasmo, eloquenza e sublime nella distinzione di una poesia alta, civile, eccitatrice di alti sentimenti.

21 Caratteristici gli sdegni di fedeli della vecchia accettazione risorgimentale aggravata dai nuovi motivi nazionalistici contro le nuove analisi dei crociani. Esemplare in tal senso la recensione di V. Cian sul «Giornale storico della letteratura italiana» al volume del Citanna.

22 La morte è il punto di incontro di questi due ordini contemplati dal Foscolo con attenzione religiosa: l’ordine necessario della natura e quello della civiltà nel suo ritmo essenziale e piú duraturo.

23 L’interrogativo ansioso e tenero è mossa stilistica caratteristica della poesia elegiaca sepolcrale e corrisponde alla natura piú profonda di tale poesia che esprime una richiesta insoddisfatta e dolente. Movimento interrogativo che passerà e sarà fatto proprio dal Leopardi.

24 Il Pindemonte era il poeta delle Prose e poesie campestri (il poeta della “leucocolia”, della candida tristezza!), ma il Foscolo poté sentire qui la suggestione soprattutto di certe Epistole come quella veramente bella ad Elisabetta Mosconi, con le figure complementari delle due sorelle (l’una lieta e fiduciosa e l’altra silenziosa e mesta) e con il passo danzante della prima: «Pel sentier della vita il piè Clarina / move danzando: innanzi a lei stan sempre / alto su l’ale d’or lieti fantasmi / e tutte innanzi a lei ridon le cose».

25 Accetto questa spiegazione audace, ma coerente e ben degna di questa finissima presentazione del colloquio fra vivi e morto. Il morto con il suo ricordo, con la sua presenza affettuosa e stimolante può riportare nel cuore dei suoi armonia, serenità, può aiutare a vivere e a superare lo stesso dolore provocato dalla sua morte.

26 Ripeto, in questo movimento la sopravvivenza individuale non è negata esplicitamente, ma la «consolazione» che può offrire il suo pensiero è nettamente svalutata di fronte a quella che veramente sta a cuore al Foscolo e che è base necessaria di tutto lo sviluppo di vita di illusioni-valori che costituisce l’essenziale acquisto ideale dei Sepolcri.

27 Poco importa per la poesia se la «nuova legge» non era poi cosí drastica da «contendere il nome ai morti» e se l’esempio del Parini non rientrava evidentemente nei suoi effetti. La polemica del Foscolo si precisava in senso antinapoleonico (donde la versione del saggio dello Hobhouse tutta diretta a precisare l’occasione nella «nuova legge» francese), ma valeva in generale contro la mentalità aridamente razionalistica da cui in diversa misura erano pur nati i provvedimenti teresiani e giuseppini della Lombardia austriaca e poi piú precisamente quelli francesi.

28 La presenza di alberi, di paesaggio vegetale non manca mai intorno alla tomba nei Sepolcri sino al paesaggio fiorentino, grandioso giardino intorno alle tombe di S. Croce, sino alle palme e cipressi ultimi consolatori delle tombe troiane.

29 Presenza vichiana essenziale non ad una risoluzione storicistica del pensiero foscoliano sempre legato alle sue premesse illuministiche, ma ad introdurre un ritmo di svolgimento nel ciclo delle illusioni-valori.

30 E non manca un’ultima eco del brano pariniano della Notte («le pallide fantasime / spargean lungo acutissimo lamento») nel fantasma che chiede la «venal prece». E si noti come quest’ultima espressione classicamente atteggiata implichi un’ulteriore condanna dei riti cattolici non tanto nel suo carattere «venale», quanto nella sua indicazione di una macabra ipoteca sulla vita, di un’immagine della morte cupa e angosciosa, popolata di larve imploranti intercessioni propiziatorie, legate a riti lugubri, a chiese tenebrose, ad una religione che il Foscolo sentiva come negatrice di vita, di serenità e incapace di destare armonia nell’anima dei viventi; vista soprattutto in una immagine convenzionale di Medio Evo («danze macabre», ecc.), ma comunque sostanzialmente lontana dagli interessi e dalla simpatia dello spirito foscoliano.

31 Ed effettivamente, malgrado i temi “politici” del Legouvè, del Delille, l’accentuazione eroico-patriottica è nuova nel suo spirito romantico, nel senso romantico della “patria”.

32 Versi del Monti citati dal Foscolo nella recensione al Bardo («s’udian gemiti e grida in lontananza / di languenti feriti e un calpestio di cavalli e di fanti»); versi del Rezzonico nella canzone per Areifilo Maratonio («Col nuovo gregge andrai / di Maratona a spaziar sul lito, / e ne’ silenzi de la notte udrai / squillo di trombe e di destrier nitrito; / ch’ivi pugnano ancor l’ombre sdegnose / de’ Persi arcieri e degli astati Achei; / un cippo a’ spenti eroi la patria pose, / l’aligera vittoria alzò trofei»; in Carducci, Lirici del secolo XVIII, Firenze 1871, p. 324); ricordi di Virgilio («telis et luce coruscus aena», En., II, 470), di Catullo («Veridicos Parcae coeperunt edere cantus», Epital.,V, 307; «Carmina divino cecinerunt omina Parcae», Epital., V, 381) e Tibullo («Hunc cecinere diem Parcae», El., II) e Pausania («Nel campo di Maratona è la sepoltura degli ateniesi morti nella battaglia; e tutte le notti vi s’intende un nitrir di cavalli, e veggonsi fantasmi di combattenti», Viaggio nell’Attica, cap. XXXII) dello Chevalier («Nel campo di Maratona veggonsi assai tronchi di colonne e reliquie di marmi e cumuli di pietre, e un tumulo fra gli altri simile a quelli della Troade...») vengono a fondersi nella agitata fantasia foscoliana che li collega rapidamente e ne cava un ritmo e una visione complessa, movimentata e illuminata dal profondo riferimento ad una storia perenne di sciagure, di eroismi, di illusioni generose, di poesie che cosí fortemente è espressa dal grande verso finale.

33 In questa alta figura del poeta che comparve in tutti i tempi, <che> qui ha raggiunto il suo tono piú alto, la sua destinazione piú “lirica” nel senso del Commento, la parola “evocare” porta la sua originale novità e la sua indicazione di vicinanza al senso romantico della poesia non descrizione, non imitazione, ma evocazione, anche se qui (diversamente che nelle Grazie) un accento di magnanima eloquenza non manca del tutto. Si noti che l’uso foscoliano del verbo “evocare” applicato alla poesia è nuovo e il Tommaseo nel suo Dizionario ha segnato appunto come nuovo rispetto a quello comune per indicare un’operazione di magia.

34 «La poesia congiunge l’origine del mondo al suo stato presente ed al nuovo caos della sua distruzione» (Ragion poetica delle Grazie, Opere, XII, p. 312).

35 Il Foscolo sentí piú tardi uno scrupolo di verisimiglianza e, citandoli, cambiò cosí questi versi (ed. Carrer, p. 379, nota): «Siedon le Muse sulle tombe, e quando / il tempo con sue fredde ali vi spazza / i marmi e l’ossa, quelle Dee fan lieti / di lor canti i deserti, e l’armonia / vince di mille e mille anni il silenzio». E non occorre neppur rilevare con quale caduta di poesia!

36 Il Foscolo riprendeva qui l’essenziale immagine omerica (uno degli esempi del “sublime” neoclassico) che aveva tradotta nella sua versione dell’Iliade («Disse: / e accennò i neri sopraccigli; al Sire / Saturnio i crini ambrosii s’agitarono / sulla testa immortale, e dalle vette / ai fondamenti n’ondeggiò l’Olimpo») e aveva a lungo discusso nella Considerazione sulla traduzione del cenno di Giove (Opere, IX, p. 329 e ss.) circa le varie traduzioni e il valore del testo omerico. Qui però la maestosa potenza di Giove (meglio adeguata nella sua esigenza di accordare il «cenno» dei sopraccigli con il movimento del capo per rendere «l’espressione della fronte da cui tranquillamente si emana e istantaneamente s’effettua la volontà dell’onnipossente», pp. 331) è resa secondo il desiderio foscoliano di un sublime maestoso ed affabile, ben lontano da certi calchi rigidi di altra poesia neoclassica: e si noti l’accordo del gerundio e dell’imperfetto che prolungano l’azione e la privano di ogni violenza. Anche il «fe’ sacro» è omerico: Iliade, XVII, dove Giove comanda ad Apollo di spargere d’ambrosia le spoglie di Sarpedonte perché abbiano poi una tomba sacra e intangibile.

37 Si noti quanto insieme al «contravveleno» omerico il Foscolo abbia utilizzato la limpidezza malinconica e pia di Virgilio in quest’ultima parte del carme.

38 La parola dantesca è eccessiva proprio nel ricordo dantesco dell’episodio di Ugolino.

39 Si ricordi che già il preromantico Cesarotti nel suo rifacimento moderno dell’Iliade aveva dato il massimo rilievo all’eroismo di Ettore e aveva intitolato il suo poema La morte di Ettore.